F abio Fazio lascia la Rai. Dopo quasi quarant’anni. Il suo contratto è in scadenza e nessuno lo ha cercato per il rinnovo. Cosa stesse per succedere era chiaro, soprattutto a lui. Che ha preso la palla al balzo e ha firmato per la Warner Bros Discovery: quattro anni e tanti quattrini. Casca in piedi, o meglio: non casca per nulla. Se ti prende e ti strapaga un editore americano che in Italia è il terzo per share e tenta di sfondare, forte di 17 canali e centinaia di ore di contenuti locali e programmazione internazionale, vuol dire che qualcosa nel tuo lavoro l’hai dimostrata.

N on a caso nel momento dell’arrivederci – che non è un addio perché non c’è mai nulla di definitivo – perfino i detrattori riconoscono al conduttore di “Che tempo che fa” i grandi ascolti (fra il 10 e il 13 per cento di share) e, soprattutto, i super introiti per la televisione di Stato (1 milione di euro a puntata). I ricavi superano le spese, con buona pace delle polemiche annose sul maxi stipendio.

Eppure la Rai rinuncia a cuor leggero a uno dei suoi uomini di punta, capace da un lato di portare in studio Obama e il Papa, Gorbaciov e Tony Blair, Carrere e Magic Johnson, dall’altro di organizzare una puntata come “Binario 21” accompagnando la senatrice Liliana Segre, sopravvissuta alla Shoah, nel viaggio della Memoria (5 milioni di ascolti e recensioni straordinarie). Perfino Fiorello è sceso in campo: “Immagino la riunione: c’è uno bravo? Fuori”. Non sarà proprio così ma, insomma. La rinuncia arriva nel momento in cui cambia il vertice dell’azienda in uno spoil system che quasi nessuno contesta più, anzi molti la condividono, mentre la politica di governo (Salvini) esulta.

Non è mai stato simpatico Fazio, soprattutto alla Lega, per i temi trattati, i migranti su tutti, ed è stato spesso accusato di un uso politico di parte della televisione pubblica, a dispetto dei modi mai aggressivi. E ora arriva il conto. Secondo l’ex direttore del Corriere della Sera Ferruccio De Bortoli la scelta della Rai è «una grandissima perdita per il servizio pubblico e un grandissimo errore editoriale», e questo stando ai numeri è sicuramente vero. Ma quando c’è di mezzo l’informazione e l’infotainment l’esperienza insegna che non è soltanto allo share che si guarda. Un programma di grande ascolto piace ancora meno a chi governa se fa una politica di segno contrario, altrimenti tutti gli anni non ci sarebbero le polemiche sugli ospiti di Sanremo, addirittura sui cantanti. C’è da stupirsi? Francamente no, nel momento in cui diamo per scontato che a ogni cambio di governo corrisponda una modifica dei vertici dell’azienda e, a seguire, dei direttori di tutte le testate: di fatto così accettiamo l’ingerenza della politica e dei partiti in quella che viene definita la principale azienda culturale italiana. C’è da indignarsi? Se si guarda alla televisione pubblica come un servizio che deve raggiungere tutti, la risposta è sì.

Però, prima ancora che agli utenti, la Rai, che non vive di solo canone ma, soprattutto, di pubblicità, il danno lo fa a se stessa perché da tempo non è più sola sul mercato: ci sono tanti colossi televisivi, concorrenti importanti, dove si può traslocare facilmente, conduttori e telespettatori. Anche le televisioni di Berlusconi negli Anni ‘80 si sono fatte largo contendendo alla Rai i beniamini, da Pippo Baudo a Raffaella Carrà fino addirittura a Santoro, l’acerrimo nemico; Sky e Dazn hanno invece sottratto alla Rai nientemeno che il campionato di calcio. C’è da immaginare che funzionerà così anche questa volta: Fazio andrà via regalando share, ascolti e introiti pubblicitari alla concorrenza. Dove, peraltro, da temp o lavora un comico come Maurizio Crozza (fischiato a Sanremo ai tempi di Berlusconi) che non é certo finito nel dimenticatoio. Anzi. Succede perché i telespettatori non sono affezionati come un tempo a una sola rete o a un solo canale, spaziano da uno all’altro, e sono pure disposti a pagare i programmi che vogliono vedere. Basti vedere il successo crescente di piattaforme come Netflix e Amazon. Lo sanno anche alla Rai. Però…

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