I l dibattito sui tempi della giustizia riscuote nella pubblica opinione, con varie sfumature, due sentimenti contrapposti.

Il primo, ponendo l’accento sulla natura unica e irripetibile della vita umana, di durata già incerta, stenta a tollerare che questa sia potenzialmente a disposizione degli accertamenti della giustizia penale, capaci di impegnare anche più d’un decennio, tra indagini e gradi di giudizio, pur di vagliare accuse che un inquirente ritenga di ipotizzare a nostro carico. Il secondo, invece, evidenzia la natura pubblica della giustizia, cui sarebbe perciò sacrificabile l’individuo, e ritiene che assoggettare le vite dei singoli agli accertamenti penali risponda all’esigenza superiore di trovare i colpevoli dei reati e tutelare i beni individuali e collettivi. Si ritiene, insomma, più importante che la giustizia faccia il suo corso, anche se lenta e perciò invasiva di porzioni significative di vita dell’imputato.

Anche il primo punto di vista, beninteso, riconosce la necessità della giustizia penale, ma vuole che funzioni spedita, e non che indagini e processi creino “eterni sospesi”, e invadano meno tempo possibile della vita delle persone, restituendo celermente la libertà da ogni preoccupazione agli innocenti, e facendo pesare sul tempo dei colpevoli solo la pena inflitta.

A nche il condannato, infatti, ha diritto di soggiacere solo alla pena, e non all’ulteriore disagio, comune all’assolto, delle lunghe incertezze del processo. Affermava il Beccaria: “Quanto la pena sarà più pronta e più vicina al delitto commesso, essa sarà tanto più giusta e tanto più utile perché risparmia al reo gl’inutili e fieri tormenti dell’incertezza, che crescono col vigore dell’immaginazione, e col sentimento della propria debolezza”, per cui il processo “deve esser finito nel più breve tempo possibile. Qual più crudele contrasto, che l’indolenza di un giudice e le angosce di un reo?”.

Il bersaglio della tesi contrapposta è, invece, la prescrizione del reato: meglio stendere il tappeto rosso all’accertamento penale, concedendogli tutto il tempo che serve anche a superare i propri ritardi e disfunzioni organizzative, non importa se congelando, comunque vada, le scelte di vita di chi vi è sottoposto, e per molti anni non sa come andrà. Si tratta, in breve, della prospettiva giustizialista, che vede la prescrizione come un bug del sistema, e pensa al prosciolto come un reo graziato dalle circostanze, o dalla scaltrezza dei suoi avvocati, visti come capaci di portare in aula ogni tranello per guadagnare tempo e … tutto sommato anch’essi un bug del sistema.

Come al solito, la realtà non s’immedesima del tutto con nessuna di queste narrazioni: è abbastanza chiaro a chi si occupa di diritto per professione che la giustizia ha bisogno di ineludibili tempi fisiologici per il suo corso, che devono essere rapportati da un lato alla gravità dei reati perseguiti, dall’altro a quanta porzione di vita sia accettabile sacrificare al giudizio, diversa per un furto e una strage.

I fatti, però, sono che il “servizio-giustizia” è spesso così disfunzionale da non centrare in un tempo ragionevole il target di pronunciar sentenza, e in questo caso deve prevalere il recupero di una vita umana da vivere senza indagini né processi: un esito irrisolto, che non piace, ma la prospettiva della persona a disposizione a vita anche della disorganizzazione e inconcludenza degli uffici, forse, piace ancora meno.

Per dirlo chiaro, non esistono furbate da avvocato per guadagnare la prescrizione, il cui corso si sospende a ogni intoppo della difesa, né i magistrati indolenti dei tempi di Beccaria: anzi, la realtà quotidiana dei processi è lo sforzo congiunto e leale di difese, accusa e giudici di trovare – tra le poche disponibili rispetto al numero elevato dei casi e scarso del personale – le date, gli orari, le aule, in cui riuscire a inserire le udienze, già sfrondate da ogni eccesso con la collaborazione di tutte le parti.

Le soluzioni starebbero, evidentemente, alla politica nell’individuare, da un lato, cosa meriti davvero d’esser penale, e dall’altro le dotazioni di cassa e di organico per rendere davvero funzionante il “servizio-giustizia”: in modo che operi sempre con la dovuta speditezza, e la prescrizione non debba mai intervenire, rimanendo a presidiare il perimetro del campo di gioco.

Si preferisce, però, sbandierare le contrapp osizioni più che trovare le soluzioni, e si sottolinea poco il dirompente aspetto pratico del problema: anche per il colpevole, cinque anni di reclusione scontati dopo dieci anni di processi determinano una complessiva indisponibilità di quindici anni della propria vita, intrappolata in un limbo.

Nel mentre, la domanda più frequente dell’imputato al suo avvocato è “Quando finisce?”.

Professore di diritto penale

e avvocato

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