I l governo italiano ha chiesto di dilazionare alcune “misure” previste dal Pnrr, l’Unione europea chiede chiarimenti, intanto rischia di saltare la terza tranche dei trasferimenti europei, un bonifico da 19 miliardi. Per qualcuno è la prova provata che Giorgia Meloni non è Mario Draghi: l’efficienza nell’erogazione dei fondi sarebbe peggiorata. I nostri ritardi, però, notano altri, risalgono a stanziamenti definiti dal precedente esecutivo.Si dice: non siamo capaci di spendere. Anche quando ha molti quattrini a disposizione, la burocrazia italiana non riesce a portare a compimento i progetti. È troppo bizantina persino con se stessa, per tacere delle aziende private: le quali hanno più volte chiesto una revisione dei bandi del Pnrr, che originariamente erano tarati su obiettivi e bisogni inadeguati.La Corte dei Conti ha pubblicato due tomi di relazione semestrale sul Pnrr. La Corte sottolinea ripetutamente come tutto il piano nazionale di ripresa e resilienza sia pensato con l’obiettivo di sanare i divari territoriali. Se i fondi di NextGenerationEU sono stati originariamente stanziati per aiutare i Paesi a risollevarsi dalla pandemia, la loro allocazione su base nazionale ha seguito regole diverse e in Italia si è usata l’occasione per definire, ex ante, un vincolo favorevole al Sud, dove andranno realizzati la maggior parte dei progetti. La redazione del piano è stata per lo più curata da vecchi funzionari nel contesto del governo Pd-5S secondo quella che all’epoca era e tutt’ora è la moda ideologica prevalente.

E cioè la celebrazione del ritorno dello Stato dopo gli anni nei quali, a causa della crisi finanziaria avviatasi nel 2008, si era presa un po’ di consapevolezza dei vincoli di bilancio. Nel momento in cui c’è stato il passaggio fra governo Conte e governo Draghi, secondo uno schema già visto in passato, la differenza fra i “peggiori” e i “migliori” è stata circoscritta all’attuazione del piano, evitando accuratamente di discutere delle questioni di fondo. L’imperativo è diventato “la messa a terra” del Piano.Il piano però è rimasto quello che era e non è così scontato che sia un grande volano di ripresa. Accanto ad alcuni investimenti infrastrutturali improntati a criteri dubbi e discutibili (il trasporto su rotaia sempre e comunque, la determinazione a non fare nuove strade), abbiamo incontrato “titoli” di riforme (dalla giustizia al fisco) sulla carta importantissime ma destinate a rimanere scatole vuote, in assenza di una chiara scelta di campo. La Corte di Conte alcune le dà per fatte: ma l’aver messo mano a un certo tema, incidendo sulle norme, non significa necessariamente aver realizzato una riforma utile e men che meno una riforma efficace. In più, nel piano sono state riversate come in un imbuto iniziative che giacevano nei cassetti dei ministeri da tempo immemore. Forse non era un caso.Insomma, non è una tragedia se non arrivano altri fondi del Pnrr, mentre è tragicomico pensare che il futuro del Paese al Pnrr stia appeso. Questo vale per il Nord ma soprattutto per il Sud. Il Covid è stato paragonato a una guerra e nella seconda guerra mondiale noi avevamo perso all’incirca 10 punti di Pil, quello che ci è costato, grossomodo, il Covid nel 2020. Poi è venuto il rimbalzo, con una crescita del 6,3%, un livello che l’Italia non raggiungeva dagli anni Sessanta. Proprio il paragone col dopoguerra, però, è istruttivo. Quello che chiamiamo “boom” economico non fu soltanto un rimbalzo: l’economia italiana ebbe, per circa un quindicennio, tassi di crescita superiori al 5%. Questi non ci vennero dal piano Marshall ma da quella capacità diffusa di innovare e fare che l’Italia scoprì al suo interno; da una messe di nuove imprese fra le quali ci sono marchi ancor oggi assai noti; dal desiderio di migliorare le proprie condizioni che contagiò tutto il Paese, grazie anche a una classe politica che non si mise di traverso. Non c’è dubbio che le grandi infrastrutture abbiano aiutato a collegare produttori e consumatori ma le grandi opere, di per sé, non bastano se non c’è ragione per utilizzarle.La logica di molte iniziative del Pnrr può avere effetti positivi sull’occupazione a brevissimo termine, per i pochi che ne saranno direttamente beneficiati. Non si incide in modo significativo su grandi questioni come istruzione e sanità. Il ritardo ha un unico effetto davvero nocivo: peggiora la reputazione del Paese fra i partner europei. Ma per la crescita è del tutto irrilevante: non sarà la speditezza nell’erogazione dei fondi del Pnrr a determinare il nostro tasso di crescita nel 2023 né negli anni a venire.

Direttore dell’Istituto

“Bruno Leoni”

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