S ono in tanti a sostenere che i cristiani non abbiano voce in capitolo su Israele, non sarebbe affar loro. Lo scontro in atto sarebbe una vicenda che riguarda ebrei e musulmani, solo incidentalmente coinvolgerebbe i cristiani. È un’opinione diffusa. Le ragioni della guerra di oggi sono tutte da ricercare nella fondazione dello Stato d’Israele avvenuta con un atto politico del 1947, quando l’Onu decretò, in esito al secondo conflitto mondiale e alla commozione provocata dalla Shoah, nel territorio denominato “Palestina”, la costituzione del nuovo Stato ebraico.

N el maggio 1948 David Ben Gurion proclamò ufficialmente la nascita del nuovo Stato, che il mondo arabo-musulmano, però, non accettò. Da allora scontri e sangue, fino alla guerra di questi giorni. È fuor di dubbio che Israele abbia diritto a uno Stato dopo la millenaria diaspora, al pari dei palestinesi che hanno radicato la loro storia in quegli stessi territori contesi.

E i cristiani in tutto questo? Gerusalemme e tutta la Galilea fino alla Giudea sono i luoghi di Gesù, sono il teatro della più grande rivoluzione della storia dell’umanità, sono la fonte e, insieme, le radici della nascita dell’Europa cristiana. Ma tutto questo sarebbe una vicenda lontana, quasi casuale, per cui, sulle circostanze attuali, i cristiani dovrebbero tacere o, al limite, parlare “sotto condizione”, perché non rischierebbero nulla e non farebbero parte della contesa. Trasversalmente, questa opinione trova accreditamento a Gerusalemme e nelle grandi organizzazioni economiche che a livello mondiale influenzano la comunicazione e quindi l’opinione pubblica. In una parola: fuori i cristiani da Gerusalemme e da Israele, la partita è tutta tra ebrei e musulmani.

Quando, nel 2019, vi arrivai a piedi dopo essere partito da Akkò, in Alta Galilea, provai una sensazione strana: da cristiano, mi sentii ospite, lontano da casa. A Gerusalemme vecchia, sul Monte Sion, dove Gesù lavò i piedi agli apostoli e spezzò il pane stabilendo il sacramento dell’Eucarestia, il governo, con pretesti vari, ancora oggi, non consente ai cristiani di potersi raccogliere in preghiera per celebrare la messa. Papa Giovanni Paolo II riuscì, dopo la sua tenace insistenza, a ottenere una deroga e finalmente, anche se per un solo giorno, a celebrare l’Eucarestia nel luogo dove Gesù la istituì. Universalmente, Israele è considerata la Terra Santa perché è la patria delle tre religioni monoteiste, cristianesimo compreso. La dimensione sovranazionale di Gerusalemme è stata decretata dall’Onu nella risoluzione del 1947, tant’è che gli Stati non la riconoscono come capitale di Israele, la sede delle loro ambasciate è a Tel Aviv. Gerusalemme è la capitale di una Terra Santa, a Gerusalemme c’è il Getsemani e il Golgota con il Santo Sepolcro. A Gerusalemme c’è la culla del cristianesimo, quindi la fonte e il senso della vita di molta parte dell’umanità. Ecco perché i cristiani hanno diritto di parola. Coltivare la pace significa favorire l’incontro tra le persone e le diverse fazioni, senza posizioni preconcette, sull’esempio di Gesù che attraversò a piedi la sua terra, sfidando il deserto e affrontando le ostilità dei farisei, perché -come sosteneva il Cardinale Carlo Martini – “non si può parlare di Gerusalemme senza amarla”. Per questo, i cristiani che vogliono occuparsi della pace in Terra Santa devono mettersi in contatto con il “popolo ebraico e la sua storia, la sua cultura, le sue sofferenze e le sue glorie”. Per costruire la pace in questa terra martoriata -sempre con le parole del grande cardinale di Milano – “non è sufficiente combattere l’antisemitismo; bisogna imparare a c onoscere, a sperimentare il tesoro di storia e di cultura del popolo ebraico, a familiarizzare con esso perché ci fa scoprire le nostre radici”. E gli ebrei devono consentire ai cristiani di prendere confidenza con loro, per esaltare la storia di santità della comune terra di appartenenza.

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