I l corpo fatto a pezzi di una giovane donna uccisa in modo atroce viene trovato dopo due mesi. Un uomo incapace di far fronte alla fine della relazione viene scoperto, processato e condannato a trent’anni per quel tremendo femminicidio.

Ma la giustizia non si ferma qui. Se è vero che la pena è punizione, deve comunque tendere alla rieducazione, parola vuota di significato senza un’azione concreta che la riempia. Ora c’è: si chiama giustizia riparativa ed è stata introdotta nel 2021 con la riforma Cartabia, dal nome dell’ex presidente della Corte costituzionale ed ex Guardasigilli. (... )

V errebbe da dire: finalmente. Eppure l’opinione pubblica è insorta: come può l’autore di un reato così efferato accedere a un percorso di giustizia riparativa? Il sottinteso è che questo programma non possa essere applicato a tutti i delitti. Invece, forse è proprio nei casi più gravi che ha un senso mettere il colpevole davanti a chi ha sofferto a causa sua.

Che cosa sia lo dice il nome stesso: qualcosa che ripari il danno, non solo alla persona offesa ma anche alla comunità nel quale era inserito. Premesso che giustizia riparativa non significa permessi, sconti di pena nè libertà anticipata, non vuol nemmeno dire che vittima e colpevole debbano riunirsi in un abbraccio che tutto perdona e cancella. Niente di tutto questo.

Innanzitutto si tratta di un percorso che procede di pari passo con la pena in carcere. Che però in questo modo non ha più soltanto un valore afflittivo (hai sbagliato dunque paghi con la limitazione della tua libertà personale) ma anche riparativo: l’autore del reato si impegna per rimediare con diverse declinazioni a seconda del fatto commesso. Se una persona è stata uccisa la riparazione non potrà certo restituire la vittima, ma per esempio, far capire il male procurato.

Per accedere al percorso di giustizia riparativa è obbligatorio chiedere il parere delle vittime, o dei loro familiari, anche se il consenso non è vincolante. Questo è uno snodo centrale: non è un fatto privato, qualcosa che riguardi il reo e la vittima, come il perdono cristiano, bensì un’azione che coinvolge la comunità lacerata dall’atto del colpevole. Al contrario di quello che può sembrare a prima vista, con questo percorso viene spostata l’attenzione sulla vittima, spesso dimenticata: l’autore del reato si assume la responsabilità e capisce il male fatto trovandosi davanti alle persone alle quali ha procurato sofferenza e dolore.

Se la vittima o i suoi familiari non se la sentono e dicono no, il colpevole può comunque avviare il percorso: l’obiettivo è la comprensione del dolore procurato anche alla collettività.

Per i reati meno gravi si ricorre alla mediazione attraverso l’incontro diretto, sempre guidato dagli esperti, fra il colpevole e le vittime. Ma esiste anche un percorso che va oltre il dialogo e può portare il reo davanti ai parenti della vittima, gli amici, persone che hanno vissuto la stessa esperienza, associazioni, enti pubblici e autorità e, dice la legge, chiunque vi abbia interesse. Il condannato non avrà alcun premio, la relazione finale sarà semplicemente trasmessa ai giudici.

Fin qui la giustizia riparativa è stata per lo più applicata dal Tribunale dei minori, e c’è stato pure un esperimento con le vittime del terrorismo degli anni ‘70, iniziato nel 2007 e durato otto anni. In un affollato incontro alla comunità La Collina di Serdiana qualche anno fa aveva parlato in termini molto positivi di quell’esperienza Agnese Moro, una delle figlie dello statista ucciso dalle Br.

Dunque, anche un uomo che ha brutalmente massacrato la ex può avviare un percorso di assunzione di responsabilità. Ed è un modo per dare concretezza alla parola rieducazione contenuta nella Costituzione. Altrimenti si continuerà a escludere i condannati dalla società, perfino una volta pagato il conto con la giustizia. Basti riguardare il bel film di Pietro Mereu “Il clan dei ricciai”: dopo il carcere c’è il nulla.

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