A l Festival di Sanremo, quest’anno, si è parlato spesso di “libertà d’espressione”. Un Paese è tanto più libero quanto più si può criticare chi lo governa, senza mettere a rischio la propria persona e il proprio lavoro. Sotto questo profilo, ci vuole molta fantasia a paventare in Italia chissà quale svolta autoritaria: sul palco dell’Ariston, a favore di telecamera e a spese del contribuente, contro l’esecutivo guidato da Giorgia Meloni si è detto di tutto e di più. Nessun bavaglio, dunque. E tuttavia i messaggi “anticonformisti” che artisti e ospiti hanno voluto lanciare da Sanremo erano pressoché tutti identici.

C i sono delle parole d’ordine e delle parole proibite, le trasgressioni non sono ammesse. Il guaio è che gli stessi protagonisti di queste vicende non se ne accorgono. Abbiamo a che fare con una generazione di “influencer” che è talmente abituata al rimbombo dei medesimi messaggi, fra retweet compiacenti e commenti adoranti, da vivere la mera esistenza di opinioni differenti come una minaccia per la libertà d’espressione, nel senso: unicamente la propria.

Le “camere dell’eco” in cui chiunque frequenti i social si è rassegnato a vivere hanno rovesciato la grande promessa di Internet: anziché un dibattito pubblico più ampio e libero, nel quale si universalizza il diritto di tribuna e tutti possono trovare un megafono, un Hyde Park virtuale, nessuno esce più dalle quattro pareti ideologiche fra cui si sente protetto.Non si spiega, altrimenti, la reazione fanatica contro un’intervista del ministro Roccella, la quale ha detto quella che dovrebbe essere una banalità: l’aborto “purtroppo è un diritto”. Ovvero l’aborto è e deve essere legale ma resta, e non può essere altrimenti, una scelta tragica: perché c’è di mezzo un feto che non diventerà mai un bambino e perché porta con sé un disagio, un dolore, per la donna che si può anestetizzare solo fino a un certo punto.

I diritti definiscono un perimetro di possibilità, non necessariamente comportamenti graditi agli altri o alla maggioranza. Non dovrebbe esserci bisogno di apprezzare le scelte altrui per rispettarle. Se al contrario rispettare significasse condividere, i diritti non servirebbero a nulla. I diritti servono precisamente quando non aderiamo perfettamente gli uni ai progetti di vita degli altri.

Il diritto a disporre del proprio corpo si esercita se una donna o un uomo decidono di prostituirsi come se scelgono di entrare in un monastero: possiamo disapprovare l’una cosa o l’altra ma dobbiamo accettare che la loro vita è, per l’appunto, loro.È un esercizio difficile, perché a tutti piace sentire sermoni con cui già siamo d’accordo e benedire uno stile di vita che coincide col nostro.Libertà d’espressione vuol dire ascoltare cose che non vorremmo ascoltare, che non ci appartengono. È la premessa di qualsiasi dibattito pubblico che sia tale: devo riconoscere all’altro la legittimità delle sue opinioni, se vogliamo provare a parlare. Questo “parlare” non è un incastro di due monologhi ma un mutuo tentativo di persuadere chi non è d’accordo con noi della bontà delle nostre tesi. Il più delle volte si torna al punto di partenza e ciascuno resta affezionato alle proprie idee. Ma ogni tanto si impara, gli uni dagli altri, e si arriva magari a comprendere le ragioni di punti di vista diversi dai propri.Stiamo cominciando a sperimentare cosa significa un’opinione pubblica i cui reggitori si sono formati scambiandosi messaggi di duecentocinquanta caratteri oppure rispondendosi a colpi di meme. Dal Covid alla guerra alle questioni di genere, la regola è issare la bandiera della tolleranza per ostracizzare come intollerante chiunque non suoni il nostro stesso spartito. Infe lice la società che confonde libertà e censura.

Direttore dell’Istituto

"Bruno Leoni”

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