Il pacifismo e l’interventismo, come pure l’interventismo indiretto pacifista, sembrano essere divenuti, con il trascorrere dei giorni, le chiavi di lettura discordanti di una “resistenza” a correnti alternate e per molti versi de-contestualizzata, siccome fattasi espressione del fenomeno, anch’esso discordante e per molti altri versi stonato, di una ricerca esasperata, ed esasperante, di “pace armata” che non ha saputo (e/o forse voluto) rinvenire al di là dell’uso della forza bellica la ragione prima e ultima dei possibili negoziati con il competitor russo.

La forbice tra le differenti posizioni finisce, quindi, con il rappresentare la misura divisoria tra differenti punti di vista all’interno dei quali, ogni potenziale disallineamento rispetto al “pensiero unico dominante” che pare riconoscere nel sostegno armato all’Ucraina l’unica via di fuga per riuscire a contrastare l’avanzata di Vladimir Putin, viene concepito sistematicamente come atteggiamento negazionista portato avanti in danno di colui che appare nell’immaginario collettivo (se lo sia o meno è un altro discorso), quale “eroe romantico” dei nostri giorni: Volodymyr Zelensky.

Ma, al di là di ogni rappresentazione immaginifica sulla “personificazione” dei “signori della guerra” (e non si tratta dei due soli contendenti sul campo), è giusto e/o intellettualmente onesto, allineare, sul piano concettuale, la resistenza degli ucraini a quella che fu una esperienza storica indimenticabile nel cuore degli italiani sviluppatasi in un contesto “altro” e senza dubbio differente rispetto a quello che attualmente vede contrapposte la Russia di Vladimir Putin e l’Ucraina di Volodymyr Zelensky? Non è forse vero che, allorquando si formò la nostra “resistenza”, Paesi come gli Usa, l’Urss, la Gran Bretagna già si trovavano a combattere contro l’Asse laddove oggi, con buona pace degli interventisti di circostanza, tanto l’Unione Europea, quanto la Nato, con atteggiamento probabilmente ambiguo (che taluno potrebbe addirittura definire irritante), e nonostante il costante sostegno armato a distanza, affermano con fierezza di non voler entrare in guerra contro la Russia? Non è forse vero che uno degli esiti costituzionalizzati della “resistenza”, quella italiana di circa ottanta anni fa, fu il “rifiuto” della guerra che, nel contesto corrente, parrebbe essere (il condizionale è d’obbligo) una delle “conditio sine qua non” per trattare la pace? Quale valore può mai avere, al giorno d’oggi, l’antico adagio “si vis pacem, para bellum”? Non si tratta forse di un paradigma comunicativo anacronistico ed estemporaneo se rapportato alla incidenza dialettica del negoziato tra nazioni? La guerra, può costituire un espediente utile a tenere unito un popolo per poterlo meglio governare attraverso l’immagine di un nemico esterno (e/o interno) facendo leva sul cosiddetto “metus hostilis”?

È chiaro che simili interrogativi sono tali unicamente nella forma, ma all’evidenza, ed in positivo, “tradiscono” di per se stessi l’ovvietà della risposta che vorrebbero sottendere. Intendiamoci tuttavia su un punto fondamentale, al fine di scongiurare fraintendimenti di sorta: non esistono “resistenze” di serie A e “resistenze” di serie B, ma solo esperienze storiche differenti. Il “misunderstanding” ideologico nasce e si sviluppa nel momento in cui ogni inutile, e politicamente scorretto, parallelismo viene proposto dai centri di potere al solo fine di “legittimare” linee politiche discutibili siccome assai lontane dall’interesse diretto e concreto del proprio Popolo che, magari, dopo due anni di Pandemia e di crisi economica e sanitaria imperante, avrebbe, come di fatto parrebbe avere, altre priorità rispetto a quella del conflitto armato russo-ucraino che, gioco forza, non fa che amplificare, portandola a conseguenze incalcolabili, la problematica economica ed i suoi riflessi sul piano reale e sociale.

È giunto il momento di comprendere che il potere militare non può più costituire il fattore determinante diretto a regolare i rapporti internazionali. Rispetto alla “operazione militare speciale” che vede contrapposte la Russia e la Ucraina, ciò che davvero sembra mancare è quella intelligenza politico-diplomatica necessaria e utile a porre fine ad una guerra, conflitto, operazione militare che dir si voglia, che pare proporsi quale autentica e funesta negazione ideologica dei valori fondamentali scaturiti dalla fase costituente con specifico riferimento agli attori occidentali metaforicamente in campo. Affidare le sorti di due Paesi agli esiti “barbaricidi” delle armi significa allontanare consapevolmente ogni prospettiva di pace. Solo su siffatta circostanza sarebbero tenute a confrontarsi le varie Nazioni, al di là ed oltre ogni interesse personalistico rivolto alla potenziale quanto improbabile eliminazione geopolitica del competitor russo.

Se davvero volessimo fornire un sostegno concreto alle popolazioni in guerra dovremmo per primi noi interrogarci sul valore della “resistenza” per poterne contestualizzare il significato profondo all’interno di un panorama mondiale globalizzato che ci vede indiscutibilmente parte di un” tutto” che, lungi dall’essere circoscritto all’interno di angusti confini nazionali, ci impone il confronto nel circuito più ampio di una cornice sbiadita dall’inesistenza di “limiti” certi, resi tali proprio in considerazione del carattere fluidifico delle appartenenze delle diverse Nazioni alle differenti organizzazioni internazionali.

Se così non fosse, d’altra parte, ci ritroveremo ad essere in debito con la Storia e con l’insegnamento che avremo dovuto trarne e che, probabilmente, ancora oggi, stentiamo a trarne. Intanto, perché la resistenza concepita ed interpretata all’attualità non può che indicare la voglia di sopravvivere agli eventi, di interpretare con consapevolezza ed onestà intellettuale il passato per farne strumento di costruzione del futuro. Quindi, perché, la (apparente) mancanza di ogni iniziativa diplomatica di carattere internazionale diretta a dirimere il conflitto russo-ucraino nel migliore interesse collettivo non può che essere concepita come la distorsione di quel desiderio di sopravvivenza che vorrebbe germogliare rigoglioso tra le macerie dell’impatto distruttivo delle armi. Infine, perché solo ponendo in essere le condizioni per la cessazione di questo inutile e doloroso conflitto si potranno gettare le basi per una autentica fase costituente che non interessi unicamente le popolazioni in guerra, ma l’intero mondo globalizzato che, probabilmente per primo, dovrà riprogrammare se stesso e le dinamiche dei rapporti di “forza” cosiddetta gentile” fondandole unicamente sulla incidenza del disarmo generale e sulla energia suadente del negoziato. Resistenza, dunque, solo come sopravvivenza resiliente e disarmata agli eventi per dirigerne il cambiamento in senso migliorativo nel migliore interesse generale e collettivo.

Giuseppina Di Salvatore – Avvocato, Nuoro

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