Le ciminiere svettano nel cielo torvo di Portovesme come canne di fucile puntate alle tempie di un paesaggio segnato dal tempo. Ci sono le vecchie, rimaste sospese nella storia di una industrializzazione calata a suon di promesse mirabolanti posate sulle profonde viscere di blenda e galena, fattesi, in questa desolata landa industriale, sia piombo che zinco. Ci sono le nuove, conficcate come grattacieli di fumo a due passi da quel che resta della rotta dei fenicotteri di Boi Cerbus, la laguna avvelenata a ridosso di Paringianu. Il reticolato di avenue e street di questa Manhattan industriale ha perso i cartelli rinfrangenti di un tempo, sono rimasti i catorci aggrovigliati di fallimenti e chiusure.

Pipistrelli e crogioli

Capannoni spalancati dalle intemperie e dai saccheggi di ferro e rame, espropriati da pipistrelli e volatili di ogni genere, accampati da decenni tra forni spenti e cumuli di polveri trasformati in crogioli di veleno vetrificato. Tutto, qui, sembra essersi fermato. Marciano solo i forni della Portovesme srl, bandiera svizzera, effige mondiale della Glencore, erede dell’Eni nell’estrazione metallurgica di piombo e zinco. E si agitano solo le benne delle gru che agguantano carbone a piene mani dalle navi carboniere che da ogni dove si rifugiano a ridosso delle “zattere-traghetto” che fanno spola quotidiana tra l’isola di San Pietro e il molo “nero” di Portoscuso.

Camini al vento

Dal porto passeggeri scorre il via vai di camion carichi di carbone che alimentano l’ultima centrale a carbone, impunemente dedicata alla donna di “Canne al vento”, Grazia Deledda. In questo recinto elettrico sventola bandiera italianissima, quella dell’Enel, la mano pubblica fattasi privata nel governo dell’energia elettrica in terra sarda. La ciminiera la intravvedi forte e chiara sin dalla costa di Buggerru, dal villaggio divelto dal vento e dalla storia di Pranu Sartu a l’inquietante Punta Cortis che da secoli incombe come un macigno sul borgo minerario di Masua.

La vetta di fumo

Duecentocinquanta (250) metri di cemento armato inerpicati sul cielo, il più alto edificio della Sardegna, uno dei più alti d’Italia, insieme alla ciminiera di Porto Tolle, nella Padania veneta. Giorgio Ruffolo, ministro dell’Ambiente nei governi di Giovanni Goria, Ciriaco De Mita e Giulio Andreotti, sin dal suo avvento, aveva deciso che quell’area doveva essere dichiarata ad «elevato rischio ambientale». Da quella delibera del Consiglio dei Ministri, era il 30 novembre del 1990, sono passati 32 anni. Un fiume in piena di soldi spesi a destra a manca per affermare un diritto sacrosanto: lavorare, senza morire a lavoro. Di quel piano di disinquinamento si è saputo poco e niente. Perso in rendiconti nascosti nei meandri segreti del pubblico e del privato.

Premi di Stato

Tutti hanno preso ricchi premi, dalle fabbriche private a quelle pubbliche. L’obiettivo era mettersi in regola, arginare e bloccare quelle silenziose e mimetizzate emissioni di veleni in atmosfera, ovvero l’aria che arriva dritta dritta nei polmoni, di chi lavora e vive in quei territori. Per molto tempo si è pensato che bisognasse stare zitti, per non perdere lavoro e pagnotta. Poi, però, per molti, è venuto meno sia il lavoro che la pagnotta. Le fabbriche, da una scusa all’altra, hanno lasciato il passo al miraggio dello Stato sociale, cassaintegrazione in tutte le salse, tempi biblici trascorsi nel limbo del nulla fare e nulla sperare. Sino all’avvento green.

La fuga elettrica

L’Enel annuncia che chiude tutto, se ne va via. La centrale, quella della ciminiera più grande, chiude. Se non ci avesse pensato Putin a ridare fiato al carbone, già dal 2025 la fabbrica di energia elettrica avrebbe smesso senza colpo ferire di far marciare gli ultimi forni ancora rimasti accesi. In realtà, però, in questa terra promessa e votata alla disoccupazione e all’inquinamento si muore, purtroppo e drammaticamente, sempre di più. A riaccendere i riflettori ci hanno pensato Draghi e Cingolani, il premier e il ministro della transizione eolica in terra e mare di Sardegna. Con il decreto energia, impugnato come “coloniale” dalla Regione sarda, hanno deciso di piazzare nel porto più desolatamente vuoto dell’Isola, una nave-rigassificatore. In teoria per dare un po’ di gas all’Enel che, però, ha messo nero su bianco il suo rifiuto: non ci serve.

La guerra della salute

L’Istituto Superiore di Sanità, il massimo organo tecnico sulla salute degli italiani, e in teoria anche dei sardi, scrive al ministero della Transizione: quella nave gasiera a Portovesme inquina, è incompatibile con la già devasta condizione ambientale e sanitaria della popolazione, sia quella dei lavoratori che dei residenti in quell’area. Quel diniego alla potente Snam è una dichiarazione di guerra. Il fuoco incrociato si consuma in volumi di documenti di risposta che la Snam trasmette direttamente al dicastero ambientale il giorno dopo ferragosto. Carte pesanti, scritte in codice, alfanumerico e criptato, per addetti ai lavori. Centinaia di pagine con dati, analisi e confessioni da brividi. La Snam, ne abbiamo dato conto qualche settimana fa, aveva chiesto alla Regione sarda i propri riscontri sul piano ambientale, registri tumori e di mortalità in quell’area. Ha persino chiesto un faccia a faccia con le strutture sanitarie locali. La società dei gasdotti di Stato, però, ha fretta. Il silenzio su quei dati ha obbligato la multinazionale del gas a incaricare una società di analisi e progettazione per scardinare il data base di ministeri della salute e dell’ambiente per incrociare proiezioni e riscontri. Da stabilire c’è se quell’inquinamento in quel territorio ha alterato, come quando e quanto, le condizioni di salute degli abitanti di un’area con ben 53 mila persone. Il riscontro è devastante. Le cifre e le analisi sono da shock senza precedenti. Tutti numeri messi nero su bianco, esplicitati anche per coloro che non avessero ben compreso quanto sta accadendo in quella terra da sempre nascosta agli occhi distratti di chi dovrebbe salvaguardare lavoro e salute.

L’analisi shock

La frase cruciale è circostanziata. Esplicita come se quelle canne di fucile proiettate sul cielo avessero deciso di sparare dritte sui polmoni di questo territorio. Scrive la relazione Snam sull’analisi dei rapporti Istat per la mortalità 2015-2019, gli ultimi disponibili: «Esaminata nel complesso, la mortalità dei circa 53000 abitanti dei sei comuni facenti parte dell’area a rischio si caratterizza per un aumento dei decessi per Malattie dell’Apparato Respiratorio sia nella popolazione maschile che in quella femminile, corrispondente ad un aumento di poco meno del 50% rispetto alle attese su base regionale. Tale eccesso appare in relazione ad un aumento dei casi di malattie acute dell’Apparato Respiratorio in entrambi i generi, e dei casi di asma limitatamente alla popolazione femminile, entrambi accentrati nei comuni di Carloforte e Carbonia».

Senza fiato

L’affermazione toglie il fatto. Si sta affermando che rispetto ai dati ordinari di mortalità, nei 53 mila abitanti residenti nei sei comuni dell’area industriale, si muore il 50% in più per malattie dell’apparato respiratorio rispetto a quante ne erano attese in base alle normali previsioni. Quell’incremento rilevantissimo di morti per malattie respiratorie è una media territoriale, questo significa che in due comuni, Carbonia soprattutto, i dati sono anche superiori.

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