Centocinque vittime da gennaio, con Giulia Cecchettin, 22 anni, da Vigonovo, ultima martire della violenza maschile. Massacrata dal suo ex in un'ora scarsa. Una sequenza della crudeltà declinata all'ennesima potenza. Lei, che per venticinque minuti ha provato a difendersi dalle coltellate, non lo voleva più, da qualche mese. Ma lui persino alla polizia tedesca, che l'ha fermato sull'autostrada A9, nella Sassonia-Anhalt, non ha potuto fare a meno di dire: «Ho ucciso la mia fidanzata». Invece no, non stavano più insieme, Giulia e Filippo Turetta, e per questo lui ha deciso di punirla con la morte. Un copione dell'orrore che dal 2013 in Italia si chiama femminicidio. Ma i comportamenti si ripetevano uguali anche prima della legge.

All'Unionesarda.it li spiega Graziella Boi, la psichiatra che alla Asl di Cagliari, per la Zona sud dell'Area Vasta, dirige il Dipartimento di salute mentale e dipendenze. La Boi fa anche la pendolare con Roma, dove siede al Tavolo tecnico ministeriale istituito nel 2019: undici i componenti e l'obiettivo di riscrivere i percorsi nazionali di prevenzione, trattamento e riabilitazione sulla salute mentale.

Direttrice, una donna uccisa, un'altra, perché mette fine a una storia d'amore infelice. Cosa sta continuando a succedere?

«In Italia, e purtroppo non siamo l'unico Paese, il rispetto dell'altro è un tema trascurato. In questi giorni, sull'onda del massacro di Giulia, si continua a ripetere che servirebbe introdurre nelle scuole l'educazione emotiva. Io dico che basterebbe implementare, in maniera efficace, l'educazione civica, sin dalle scuole elementari. Perché da qui passano anche i femminicidi, fondati sul mancato riconoscimento dei diritti dell'altro. Si tratta di una regola base della convivenza sociale. Nelle scuole noi operatori veniamo invitati, per parlare di droghe, alcol e gioco d'azzardo, ma non di salute mentale e dei disturbi che stanno scandendo l'attualità».

Quanta patologia c'è in un femminicidio?

«Il fenomeno è complesso. Educare al rispetto dell'altro è l'unico modo per correre ai ripari. E abbiamo anche l'obbligo di farlo in fretta. C'è sempre un prima che anticipa la violenza. Ai giovani, per esempio, nessuno spiega quando e come devono chiedere aiuto. Tra i disturbi di cui si parla poco ci sono anche quelli legati all'alimentazione e alla depressione, caratterizzata dalla chiusura sociale e talvolta anche dall'incapacità di relazionarsi con gli altri. Tutte situazioni possono avere un lieto fine formando gli adulti a recepire i segnali precoci di sofferenza e disagio nei bambini e negli adolescenti».

Quand'è che si deve chiedere aiuto?

«Quando ci si trova davanti a comportamenti ossessivi come la gelosia. Si pensa che siano equivalenti dell'innamoramento, invece sono un'altra cosa, talvolta si tratta di vere e proprie paranoie. Lo dimostra il fatto che nell'omicida reo-confesso di Giulia emergevano anche tratti ossessivi e di ritiro sociale: lui si relazionava quasi esclusivamente con lei. Ciò non significa che Filippo Turetta sia incapace di intendere e di volere. Al contrario: questo giovane va considerato pienamente responsabile di ciò che ha fatto».

Ecco: un bravo ragazzo, come viene dipinto l'assassino di Giulia, può diventare un mostro in una notte?

«Certamente no. Turetta ha fatto un percorso tutto suo che su Giulia l'ha portato a dire: “O mia o di nessun'altro”. Perché questo è il femminicidio. È questa l'ossessione che spinge gli uomini ad ammazzare moglie, fidanzate o ex, mantenendo ben segrete le idee omicide, magari presenti da tempo».

È possibile bluffare così bene?

«Purtroppo sì, è possibile. E infatti sino a prima del femminicidio, chi uccide viene considerato il più delle volte una brava persona. Tanto che spesso nulla fa presagire un atto così efferato, il caso di Vigonovo ne è un esempio».

Sui massacri delle donne commessi in contesti di apparente normalità cosa dobbiamo imparare a capire?

«Dobbiamo capire che il male esiste in ognuno di noi. Anche una persona cosiddetta normale può uccidere, usando estrema violenza».

Il padre di Turetta ha parlato di figlio perfetto. Possibile che nemmeno la famiglia avesse colto segnali?

«Ripeto: lui è stato abile a tenere nascoste le proprie intenzioni. Va detto che siamo ancora nella fase dell'approfondimento, il ragazzo non è stato nemmeno ancora interrogato. Parrebbe, ma non voglio essere superficiale, che ci sia stata premeditazione. A me sembra che Turetta abbia seguito un iter portato avanti in maniera minuziosa. I genitori hanno sì raccontato di aver visto un figlio affranto, dopo la fine della storia con Giulia, ma non hanno colto che aveva un innamoramento maligno e tossico. Magari avrebbero potuto capirlo cercando interazioni più efficaci con il figlio, prestando attenzione ai segnali di aggressività così ben osservati dai suoi amici. A volte si scopre troppo tardi di avere in casa un mostro, non un angelo».

In tempi di famiglie adolescenti, l'inadeguatezza genitoriale dove inizia?

«Inizia nel momento in cui si diventa genitori e si scelgono modelli educativi improntati a valori spesso solo teorici. Invece il rispetto e la stima, così come l'assenza di violenza, verbale, fisica e psicologica, difficilmente determinano risultati disfunzionali se vengono utilizzati. I percorsi di educazione civica per i giovani andrebbero allargati alle famiglie. Sarebbe una gran cosa coinvolgere insieme genitori e figli. Si partorirebbe una prevenzione migliore, perché verrebbe condivisa. Nei disturbi psichiatrici, è vero che il paziente è uno, però sono fermamente convinta che la famiglia rappresenti il co-paziente. La persona che soffre, si sentirebbe meno sola con la comprensione dei parenti, a cui si può garantire supporto grazie a questi percorsi di aiuto».

Prendiamo ancora il caso di Vigonovo: Turetta padre ha raccontato di aver consigliato al figlio di andare dallo psicologo. Come si interviene in questi casi?

«Non si può intervenire: in Italia c'è la libertà di cura. Noi abbiamo un solo atto medico che obbliga a sottoporsi a un trattamento sanitario: è il Tso. Ma per richiederlo ci vogliono la gravità della patologia e l'urgenza di una terapia da effettuarsi in ambiente protetto, come quello del Servizio psichiatrico di diagnosi e cura. Si aggiunga che nel paziente sottoposto a Tso manca la consapevolezza della malattia».

La pericolosità della persona conta?

«No, la pericolosità non è contemplata dai servizi sanitari. Quindi: i genitori possono anche dare consigli ai propri ragazzi, e si tratta di un supporto importante. Ma se un figlio non ritiene necessario intraprendere il percorso terapeutico, non lo si può obbligare. Nei nostri servizi dovremmo collaborare di più con gli psicologi, lasciando che loro si occupino dei cosiddetti disturbi emotivi comuni, che impattano negativamente nella nostra società».

Quali sono i disturbi emotivi comuni?

«Parliamo di ansia, attacchi di panico, disturbi ossessivi compulsivi o depressioni lievi. Non sono disturbi gravi, ma vanno a incidere ugualmente sulla qualità della vita».

A guardare i numeri dei femminicidi, la legge del 2013 non sembra un deterrente.

«Dietro i femminicidi ci sono situazioni molto complesse. Il mero calcolo sulla durata della pena (da 12 a 24 anni senza aggravanti, ndr), non rientra nel ragionamento di chi uccide. In questi giorni c'è stato anche un tentato omicidio: l'uomo che l'ha provato a togliere la vita a una sua ex, era un libero vigilato che non aveva il braccialetto».

Lei è favorevole al braccialetto?

«Io sì».

Gli avvocati, con sempre maggiore frequenza, chiedono la perizia psichiatrica per i propri assistiti-assassini. È una strategia difensiva che paga?

«Come Asl di Cagliari, abbiamo creato una Struttura dipartimentale di Psichiatria forense. Facciamo da cerniera tra i Tribunali e gli imputati. Questa organizzazione rappresenta un fatto positivo, perché avvantaggia sia il perito, che può contare sul nostro supporto, sia la persona invitata a fare percorsi di terapia riabilitativa alternativa alla carcerazione. Tuttavia, rilevare un disturbo psichiatrico non porta direttamente a una diagnosi di infermità o seminfermità mentale, né significa in automatico che l'assassino eviterà il carcere. La perizia serve proprio per capire quanto il disturbo stesso impatti sulla capacità di una persona di mettere in atto comportamenti delittuosi. Per contro, essere violenti o antisociali non significa necessariamente aver sviluppato un vero disturbo psichiatrico».

Per fare un esempio pratico: nel caso cui si commetta un omicidio, è un'attenuante essere bipolare?

«Assolutamente no. Una patologia, per incidere sulla pena, deve essere grave. Se è lieve o moderata, può risultare irrilevante. Con la perizia si accertano tutti questi aspetti. In ogni caso la patologia deve avere anche attinenza con il reato commesso».

Qualche giorno fa, un femminicida piemontese di 36 anni, che proprio in Sardegna aveva ucciso la fidanzata, ha potuto lasciare il carcere perché obeso e fumatore incallito. Sui social è esplosa l'indignazione.

«Considero corretta la decisione assunta dal Tribunale di sorveglianza di Torino: a questa persona è stato assicurato il diritto di curarsi. Evidentemente nel carcere dove stava non c'era un centro clinico. È civiltà consentire a un detenuto di recuperare una dimensione di salute accettabile,in attesa di riprendere il percorso carcerario. In altri tempi, una notizia del genere non avrebbe fatto scalpore. Adesso i mass media ne parlano con enfasi e il più delle volte generano rabbia. A me, come persona, ha semmai indignato che il padre, intervistato da una tv e con il figlio accanto, abbia dato risposte non adeguate, derubricando il femminicidio commesso a una normale litigata tra ragazzi. Erika, così si chiamava la vittima, è stata ammazzata con 57 coltellate. Soprattutto questo ha dato la stura negativa a tutta la questione. Un padre che assolve il figlio davanti a un omicidio così efferato, genera nella popolazione il fatto che la legge non sia uguale per tutti. Personalmente, in quelle parole non ho trovato grande rispetto per la vittima».

Il primo avvocato nominato dalla famiglia Turetta ha detto che il suo assistito voleva bene a Giulia e le preparava anche i biscotti. Questa dichiarazione come la legge?

«Il male è tremendamente normale. Si possono preparare biscotti per la propria fidanzata, per poi ammazzarla con crudeltà, se lei rifiuta di proseguire la storia. Di sicuro, l'atteggiamento assolutorio, anche quello che si rileva nella dichiarazione del legale di Turetta, è inaccettabile. Le parole vanno pesate. Il femminicidio di Giulia è di estrema gravità per la modalità con cui alla giovane è stata tolta la vita».

La pena deve rieducare. Succede davvero?

«Le carceri devono diventare luoghi di rieducazione e, quando possibile, di riabilitazione. Per questo come direttore del Dipartimento di salute mentale, ho fatto sì che nella casa circondariale di Uta venisse potenziato il numero di operatori, inserendo anche due psichiatri in pianta stabile, cinque psicologhe e due educatori. Serve tuttavia che i penitenziari abbiano spazi adeguati, anche per le attività, non solo per le cure».

Carceri inadeguate fanno aumentare il numero dei detenuti con disturbi psichici?

«In realtà a crescere non è il numero dei detenuti con patologie psichiatriche, ma il ricorso ai farmaci, considerati spesso necessari per acquietare le pene dell'anima scaturite dalla privazione della libertà. Faccio un esempio: se un detenuto soffre perché sta morendo la madre, vien da sé che abbia poco senso somministrare un medicinale, in quanto si tratta di una soluzione tampone solo apparente. La relazione di aiuto deve fondarsi in misura maggiore sul supporto psicologico. Gli antidepressivi sono i farmaci più usati dopo quelli per curare le malattie cardiovascolari, ma così facendo si anestetizzano le società».

C'è disappunto nelle sue parole.

«Io capisco che si provi a far stare un po' meglio i reclusi, ma serve un percorso riabilitativo. In questo senso le colonie penali, dove i detenuti sono responsabilizzati attraverso l'impegno quotidiano nelle più svariate attività, sono una buonissima risposta per centrare l'obiettivo della rieducazione. Lo stesso succede nelle case lavoro, anche se in Sardegna non le abbiamo».

La cronaca che arriva dalle carceri, inclusa la nostra Isola, rivela che lo Stato non è in grado di garantire la funzione rieducativa della pena. Allora fa sconti sulle condanne per autoassolversi da questo fallimento?

«Il campo è spinoso, tocca molti ambiti, impossibile fare sintesi in poche righe. Per quanto riguarda il mio settore di competenza, da alcuni anni si rileva, da parte dei detenuti, un aumento sempre più crescente di esplicite richieste che consentano l'accesso a misure alternative alla detenzione. Le problematiche legate al sovraffollamento dei penitenziari determinano spesso comportamenti esplosivi che solo apparentemente giustificano il ricorso a un percorso diagnostico e farmacologico».

Il problema dei femminicidi è sociale. Ma prima ancora è maschile. Che consiglio dà agli uomini?

«Difficile dare un consiglio. Molto meglio è fare prevenzione, partendo dal valore della vita, fatto essenzialmente di rispetto».

Sempre più spesso si parla di psicologo di base: è una figura necessaria?

«È una figura eccellente e ben venga, se possiede le competenze specialistiche per affrontare anche i disturbi emotivi comuni».

Resta il fatto che andare dallo psicologo, e ancora di più dallo psichiatra, continua a essere considerata una roba per pazzi.

«Certo, purtroppo il pregiudizio e lo stigma sono ancora imperanti. Ma dobbiamo iniziare a lavorare nelle scuole sulla salute mentale: solo così possiamo fornire ai giovani e agli insegnanti gli strumenti per riconoscere i segnali del disagio. Ordinare i propri pensieri e comprendersi meglio sono esercizi, e come tali richiedono un percorso di apprendimento. Ma a contare è anche l'ambiente: la psichiatria è profondamente legata all'epigenetica: la qualità della vita contribuisce a modificare i nostri geni».

© Riproduzione riservata