Da una parte Katanga, profondo Congo, Repubblica democratica, recitano le carte geopolitiche, dall’altra il Sulcis, profondo sud Sardegna, Regione che fu Regno. Tra Lubumbashi, capoluogo della sconfinata provincia africana, e Portovesme, capitale industriale dell’Isola dei Nuraghi, ci sono seimila chilometri di distanza. Sino a ieri niente da spartire. Da una parte vita sotto la soglia della povertà, sfruttamento minerario di cobalto senza confini, con l’80% per cento dell’estrazione mondiale e bambini ridotti in schiavitù. Dall'altra sviluppo industriale, fabbriche chiuse, miniere di piombo e zinco dismesse da trent’anni almeno, decessi per malattie respiratorie superiori del 50% rispetto alla media regionale.

I “sud” & le intelligence

A Katanga nessuno sa niente del Sulcis e viceversa. Eppure da mesi quei poli opposti, quei “sud” di Congo e Sardegna, si traguardano attraverso carte segrete, riflessioni a bassa voce, progetti sottotraccia. La notizia a dicembre dello scorso anno sembrava surreale e senza riscontri documentali: secondo un informatore interno alle “intelligence” industriali un gruppo di tecnici e ingegneri stava lavorando ad un progetto di una multinazionale svizzera per realizzare nel Sulcis una linea produttiva per un materiale “raro”. In realtà l’informativa da codice criptato era circoscritta ad una sigla: Co, ovvero Cobalto. Un minerale balzato agli onori della cronaca quando, alle soglie del 2020, l’era green si è trasformata da strategia verde per il 2050 all’incombenza del 2030. Una materia prima ritenuta fondamentale nello scenario delle batterie per l’accumulo elettrico, quello necessario per spingere le macchine “verdi” a prestazioni ad emissioni zero. In un attimo la corsa al cobalto è divenuta guerra ad accaparrarsi giacimenti nei più lontani continenti, magari da sfruttare con manodopera da quattro soldi, a rischio salute e vita.

Soffiata

La “soffiata” di un progetto “Cobalto Sulcis”, però, era ancora in embrione, destinata ad attendere qualche sussulto per essere circoscritta e, con tutte le cautele, eventualmente divulgata. Il tam tam del sottobosco industriale legato alle lobby metallurgiche internazionali ha continuato a registrare boatos sempre più insistenti, con un riferimento sempre più marcato ad una linea produttiva da affiancare alle produzioni industriali del Sulcis.

Le svizzere

Lo scenario non aveva molte variabili: da una parte la svizzera Glencore, un vero e proprio colosso mondiale della metallurgia primaria, prima produttrice mondiale di cobalto, a capo delle più grandi miniere in Congo, impegnata, nello stabilimento che fu dell’Eni, a produrre piombo e zinco, dall’altra una nuova società elvetica, la Sider Alloys, finanziata a piene mani dallo Stato italiano per rimettere in marcia l’impianto di alluminio primario che fu della multinazionale americana Alcoa. La prima a scoprire le carte, però, è stata la Glencore, la multinazionale che nel Sulcis gestisce l’impianto della Portovesme Srl, l’unica entità produttiva rimasta in piedi, sino a ieri.

L’indizio di Roma

Nel palazzo che fu dell’Industria, nella Roma capitale, la società che estrae piombo dai fumi d’acciaierie di mezzo mondo comunica che si ferma. L’energia costa troppo. Per un’industria energivora il prezzo è fuori mercato. Da sempre quell’impianto ha marciato con un costo dell’energia elettrica inferiore ai 30 euro a megawatt/ora, il costo, secondo il borsino della speculazione, nell’era della nuova guerra Russia- Ucraina, invece, ha sfondato il tetto dei 300 euro a megawatt/ora. Le proposte avanzate dal Governo per mitigare il costo energetico si sono rivelate inutili, inefficaci, incapaci di dare una benché minima risposta all’emergenza. Il decreto sull'Energy Release proposto dal Governo Draghi è stato, insomma, l’ennesimo buco nell’acqua.

Serrata per il piombo

Gli svizzeri non si perdono in chiacchiere e confermano la serrata della linea piombo. Notizia devastante in un territorio arso dalla disoccupazione, dalla chiusura da ormai dieci anni dell’Alcoa e da tredici dell’Eurallumina. La notizia, però, è affiancata da una mezza “soffiata”: la Portovesme srl ha avviato lo studio per la produzione di materie prime per le batterie del futuro. In un attimo il cerchio della soffiata si restringe. Il combinato disposto è legato a due elementi chiave: la Glencore è la più grande produttrice al mondo di cobalto e l’Unione Europea, nell’ambito del suo piano green, sta mettendo a correre un mare di denari per produrre in Europa le “materie rare” per la produzione di batterie.

Elon Musk & il Sulcis

Le quotazioni del cobalto, dunque, mettono fuori uso gli impianti di piombo e zinco, per far scattare una nuova guerra economica sulle materie rare. La Glencore non svela le sue carte, ma di certo non intende lasciare ad altri la partita europea del cobalto, fondamentale nella produzione delle batteria al litio, pronte a sostituire proprio quelle al piombo. La carta d’identità della multinazionale svizzera è eloquente: principale produttore mondiale di cobalto estratto principalmente come sottoprodotto del rame nella Repubblica Democratica del Congo. Glencore, in questo scenario, ha già siglato un accordo strategico con Elon Musk per la fornitura di cobalto per le batterie delle auto Tesla da produrre in Cina e Germania. In ballo, però, ci sono questioni rilevanti. La prima: cosa c’entra il cobalto con la Sardegna? La seconda: quali saranno nel Sulcis le ricadute della sua produzione per l’ambiente e la salute umana? Quesiti mai prematuri. La storia del Sulcis, del resto, è una lezione a viso aperto.

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