Fa caldo. Non soffia un filo di vento. I muri di cemento armato sono una muraglia cinese in terra di Padania. Quelle pareti grigie infinite mozzano il fiato, tolgono il respiro, ma non placano le microspie ambientali che registrano ogni sussulto nel quartier generale dei capimafia, nel carcere di Opera, estrema periferia sud di Milano. È il 30 agosto del 2013.

La «belva» nel giardino

Il Capo dei capi, «la belva», è seppellito lì, in attesa che si decida a raccontare ai Giudici la storia criminale degli ultimi trent’anni del Bel Paese. Lui non lo sa, ma ogni volta che si affaccia su quel “giardino d’aria”, meno di trenta metri quadri cosparsi di muffa e licheni, per meno di un’ora di passeggiata, c’è chi lo guarda e chi lo ascolta. Le intercettazioni ambientali agli atti dei processi più duri, quelli delle stragi, da Capaci a via D’Amelio, sono una pietra miliare della saldatura tra i Corleonesi e il clan dei Trapanesi, quelli di Matteo Messina Denaro. Chi parla è Salvatore Riina, agli atti il numero uno di Cosa Nostra, Totò per i suoi “picciotti”. Chi lo ascolta in presa diretta è Alberto Lorusso, compagno di passi nel bunker di Opera. Totò Riina non cammina, strascica i piedi, quasi a segnare il tempo che fu.

La confessione registrata

Gli uomini dell’Antimafia lo stanno registrando, come se le dichiarazioni spontanee fossero una confessione senza appello. Rievoca il Totò di Corleone. Racconta gli errori e le responsabilità, indica il predestinato alla successione, ma nel contempo ne segna la fine. La registrazione di quella intercettazione è nitida come un “de profundis” di mafia. Lo slang è strettissimo, parla in codice siculo, ma i gli inquirenti lo traducono sino ai sospiri. Racconta Riina: «Ora se ci fosse suo padre buonanima, perché il padre era un bravo.., una brava persona, una bella persona, lo zio Ciccio era di Castelvetrano, però…. Devo dire la verità, ha fatto tanti anni nel “cumannamentu” a Castelvetranu fino a che un giudice gli ha dato... Ma era una persona veramente, che camminava come…».

L’erede di «Zuù Cicciu»

Lo «zio Ciccio», quello del racconto del Capo dei capi è Francesco Messina Denaro, il padre di Matteo, «un bravu cristianu, un beddu cristianu zzù Cicciu». Tra i due c’è stima e rispetto, nonostante i due mandamenti, quello di Riina, Corleone, e quello di zzù Cicciu, Castelvetrano, fossero due organizzazioni separate anche se contigue. In realtà la supremazia dei corleonesi è tale che «zuù Cicciu» compie il gran passo: affidare suo figlio Matteo alle cure della “bestia”, quello destinato a diventare il padrino di Cosa Nostra nel mondo. Riina lo racconta senza fronzoli nell’intercettazione inchiodata nelle 1009 pagine di una delle tante sentenze che gli hanno “inflitto” ben 26 ergastoli.

In tutti i posti pale ‘e luce

È il Padrino che parla di Matteo Messina Denaro, il figlio di «Zuù Cicciu»: «Questo qua, questo figlio che lo dà a me per farne.., per farne quello che doveva fare, è stato quattro cinque anni con me, andava bene. Minchia… , poi si è messo la pala della luce, la pala della luce in tutti i posti pale ‘e luce. Ed è finita.., ed è finita! Ed è finita! E’ finita la luce…». È il passaggio più cruento del distacco tra il Capo dei Capi e il suo successore. Un tradimento consumato sull’onore dei Capimafia destinati, secondo le regole di Cosa Nostra, a reggere le sorti di un organizzazione criminale e non trasformare il “mandamento” in una Società per azioni per fare solo i propri affari.

Riina, l’educatore tradito

Nella sentenza i Giudici interpretano la già esplicita intercettazione: «Il Riina, facendo esplicito riferimento a Francesco Messina Denaro, confida all’interlocutore di avere avuto proprio da questi l’incarico di formare il figlio Matteo il quale era stato con lui quattro-cinque anni. Riina, pur usando toni critici nei confronti del Messina Denaro Matteo il quale, successivamente alla loro frequentazione, si era (a suo giudizio) inopportunamente dedicato al settore delle pale eoliche, mostra un’evidente delusione del Capo dei Capi per le scelte fatte da colui che, sostanzialmente, considerava il proprio pupillo». Sembra un maratoneta Totò Riina, undici passi avanti e undici indietro. Sali e scendi per il lato più corto di quel fazzoletto di cemento coperto solo dalla nebbia perenne. È spontaneo, come se la confessione su Matteo Messina Denaro fosse un peso sulla coscienza da togliersi prima della fine. Dichiarazioni insperate quelle del Capo dei Capi utili a ricostruire il tempo delle stragi, quelle affidate al suo discepolo più promettente. Una scelta, quella di indicarlo come suo successore, che emerge ancora nei dialoghi di qualche giorno dopo, il 20 settembre del 2013, sempre con il suo compagno di cella al 41 bis di Opera. Tutte intercettazioni legate al Processo “Trattativa”, quella tra la mafia e lo Stato.

«I pali della luce»

In quest’ultima confessione inconsapevole e spontanea «Riina aveva confidato al suo compagno di detenzione la propria disillusione per il comportamento tenuto dal Matteo Messina Denaro il quale, pur avendo delle ottime “qualità criminali”, essendo stato “istruito” proprio dal Riina non aveva interamente messo a frutto gli insegnamenti ricevuti, preferendo dedicarsi al settore eolico (“pali della luce"), restandosene al sicuro all'estero con la fidanzata». La trascrizione di quella intercettazione è scolpita nei nastri di registrazione: «l’unico ragazzo che avrebbe potuto fare qualcosa perché era dritto... u patri buonu l’aveva avutu, buonu era, il ragazzo aveva avuto questa scuola».

Stato-Mafia & vento

Al processo Stato-Mafia è Salvatore Bonferraro, il sostituto commissario di polizia incaricato di analizzare le parole e le immagini catturate dalle microspie a confermare il significato di quella confessione: «Sì. Allora, il signor Messina a cui faceva (Riina) riferimento era sicuramente Messina Denaro Matteo, latitante (da due giorni non più n.d.r.). La vicenda a cui si riferiva, alle pale eoliche. Lui in quel periodo, sia il Messina Denaro, unitamente a Vito Nicastri, soprannominato il re dell’eolico in Sicilia, si stavano interessando della zona in special modo del trapanese, di mettere dell’eolico. E quindi la vicenda a cui si riferivano era proprio questa qua delle pale eoliche, e il soggetto appunto era Messina Denaro Matteo».

L’ispettore puntualizza: «In questa circostanza il Riina era molto adirato, anche nei confronti di Messina Denaro Matteo, perché lui in quel momento, ecco, a dire di Riina si stava impegnando principalmente in attività economiche… eolico…». Il pubblico ministero incalza l’ispettore: «C’era un tale Nicastri in qualità di prestanome nel settore dell’eolico?». L’ispettore è assertivo: «Sì, è stato arrestato in qualità di prestanome di Matteo Messina Denaro». Il passaggio è cruciale: l’abbandono della filosofia stragista di Riina, il tradimento del codice di Cosa Nostra e, soprattutto, l’eolico, la nuova frontiera degli affari di Matteo Messina Denaro, U’Siccu. È sul vento, da Trapani a Ploaghe, in terra di Sardegna, che gli affari si moltiplicano nel nome di Cosa Nostra. Qualche anno prima il nome di Vito Nicastri, elettricista di Alcamo, era balzato clamorosamente agli onori della cronaca: un pizzino trovato nel 2007nel covo di Giardinello del boss Salvatore Lo Piccolo, alleato di ferro di Bernardo Provenzano e Matteo Messina Denaro, riportava la corrispondenza tra il boss palermitano e il superlatitante Matteo Messina Denaro. Le parole vergate da Matteo Messina Denaro, in quel pizzino che riproduciamo sono più di un contratto: “Nicastro di Alcamo. Ok!”. Per Vito Nicastri è la “consacrazione”: è lui secondo gli inquirenti l’uomo che realizza parchi eolici con la benedizione del boss. , arriva nel 2007. Il suo nome figura in un pizzino trovato nel covo dove è stato arrestato il boss Salvatore Lo Piccolo.

Nel 2009 la prima operazione delle forze dell’ordine contro l’impero nascente di Nicastri & C. porta al sequestro di uno dei più imponenti parchi eolici mai costruiti in Sardegna, quello di Ploaghe. Cinquantuno torri piazzate nel proscenio della valle dei Nuraghi e della Basilica di Saccargia. Già allora emerge una rete di capitali che scavalcano il mare e le Alpi, sino ai paradisi fiscali del centro Europa. Nel 2013 scatta il blitz più imponente: 12 persone, accusate a vario titolo di associazione a delinquere di stampo mafioso, estorsione e favoreggiamento, oltre a fittizia intestazione di beni, sono state arrestate. In manette finisce anche Vito Nicastri, noto imprenditore e considerato il "re dell'eolico", lo stesso dell’inchiesta sarda, dove aveva già conosciuto le patrie galere. La sezione Misure di prevenzione del tribunale di Trapani gli confisca un impero economico, il più grande di sempre: un miliardo e trecento milioni di euro, tanto valevano le 43 società di capitali che Nicastri utilizzava per gestire i suoi affari nel settore dell’eolico e del fotovoltaico. Il processo di primo grado lo condanna a nove anni di carcere: l’accusa è pesantissima ha finanziato la latitanza di Matteo Messina Denaro. In secondo grado la Corte d’Appello gli dimezza la pena, non ci sarebbe stato il concorso esterno. La Cassazione non ci sta. Qualche mese fa la sentenza: il processo dovrà essere rifatto. La massima Corte ha accolto il ricorso della Direzione Distrettuale Antimafia del capoluogo siciliano. Da spiegare ci sono ancora molti passaggi di denari eolici. In una villetta nascosta in rue Jean-Pierre Beicht 226, Luxembourg, in Lussemburgo gli investigatori della Direzione investigativa antimafia hanno trovato la sede di una strana società che si occupa di energia eolica. In questi anni l’anonima società ha continuato a ricevere bonifici da una filiale del Monte dei Paschi di Siena, guarda caso di Alcamo, provincia di Trapani, una delle roccaforti del padrino di Cosa nostra. I bonifici erano marchiati Vito Nicastri, il "re dell'eolico". Compreso quello sardo, in nome e per conto di Matteo Messina Denaro.

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