Ha pianto quando ha saputo della sentenza definitiva della Cassazione ed è entrata in carcere disperata: Antonella Asara è una delle persone che hanno iniziato a scontare la pena 23 anni dopo i fatti per i quali sono state condannate. 

È successo in questi giorni ad alcuni dei protagonisti, gli ultimi rimasti in ballo, dell’operazione Aquila, la maxi indagine condotta vent’anni fa dalla Dda di Cagliari a Olbia su una presunta organizzazione sardo-albanese di trafficanti .

La Corte di Cassazione ha confermato le condanne di secondo grado per la olbiese Antonella Asara (sei anni di reclusione), per il sassarese Angelo Antonio Deiana (dieci anni di reclusione), per Luzlim Feimi (quattordici anni di reclusione), nei confronti di Mauro Piccinu, anche lui di Olbia (sette anni di carcere), condannati anche l’albanese Luan Rushiti (quattordici anni di carcere) e l’olbiese Antonio Salerno (sei anni di reclusione).

Qualcuno avrebbe fatto perdere le tracce, stando a indiscrezioni, Antonio Salerno, difeso dagli avvocati Fernando Vignes e Mario Perticarà sarebbe irreperibile.

L’uomo  è ricercato dalle forze dell’ordine che devono notificargli la sentenza della Cassazione e portarlo in carcere.

Il dramma è per chi entra in cella dopo essersi rifatto un’esistenza, come Antonella Asara, che nell’arco di 20 anni ha cambiato radicalmente la sua vita. 

Dicono i suoi difensori, Antonello Desini e Nicola Di Benedetto: «La nostra assistita è un’altra persona, ha ricostruito la sua vita in questo lungo arco di tempo. Ora è disperata».

Il processo è durato quasi quindici anni e ora può considerarsi concluso, ma con risvolti umani drammatici per la sua tempistica.

Le accuse della Dda riguardano il traffico di cocaina ed eroina, solo per alcuni boss (condannati nella primissima fase del processo) c’era anche la contestazione di sfruttamento di giovani slave, avviate alla prostituzione soprattutto a Olbia.

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