Il nome in codice, «Area 5», è inquietante come la segretissima e fantomatica “Area 51”, la base militare americana dislocata nel lontanissimo deserto del Nevada. In questo caso, invece, la zona vietata da cancelli e recinti consunti dal tempo si staglia a ridosso della sponda est dello specchio acqueo, civile e industriale, di Portovesme, profondo Sulcis. Per trovarla devi seguire la strada nera del carbone e delle sue polveri, quelle prodotte dalla centrale Enel di Portoscuso, impunemente dedicata a Grazia Deledda.

Veleni al vento

Qui, però, non ci sono “Canne al Vento”, ma pulviscoli di ogni genere che ancor impregnano l’aria battuta dal maestrale “d’ordinanza”. Quel lembo di terra è la stratigrafia storico- geologica dell’industrializzazione del Sulcis. Hanno incominciato nel 1961 a riempirlo di scorie di carbone, polveri e ogni genere di “maledizione” ambientale. La Società Mineraria Carbonifera Sarda l’aveva destinata «alla sistemazione dei rifiuti della propria centrale termoelettrica. Un’area dalla morfologia variegata, con depressioni naturali, che sembravano già da allora la sede “naturale” per stipare tutto “il nero e il grigio” di quella fabbrica di energia elettrica.

Corrente di Stato

Con la nazionalizzazione della “corrente” l’Enel proseguì nell’opera di riempimento. Volevano trasformarlo in un terreno pianeggiante, a colpi di scorie e rifiuti vari. Sino al 1989 gli abbancamenti non si fermarono mai. Dal 1990, con l’avvento della dichiarazione di «area ad elevato rischio di crisi ambientale», l’Enel avviò l’esportazione esterna di quei rifiuti. In teoria, secondo i report ufficiali, l’Ente elettrico avrebbe rimosso da quell’area ben 600 mila tonnellate di materiale stoccato. A marzo del 2003 arrivò la perimetrazione dell’area ad «elevato rischio». La centrale “Grazia Deledda” e «l’Area 5» ci finirono dentro a pieno titolo. Nel 2012, sempre con gravissimi ritardi, con l’ambiente e con la storia, furono avviati ulteriori campionamenti in quell’area “predestinata” all’inquinamento.

Rifiuti infiniti

I risultati furono senza appello: «tali approfondimenti consentivano di stimare in 245.000 metri cubi il volume presente in sottosuolo». Spessori di rifiuti variegati, tra 1,7 e 5 metri dal piano di campagna, inclusi 35.000 metri cubi rilevati sotto il livello della falda acquifera. Per il Ministero dell’Ambiente non c’erano margini di discussione: si tratta di «una fonte attiva di contaminazione». Nei Palazzi “ambientali” di Roma non c’erano dubbi: l’Enel «avrebbe dovuto presentare “un progetto complessivo di Messa in Sicurezza Permanente dell’intera area, la cui realizzazione potrà essere attuata per lotti funzionali privilegiando quegli ambiti territoriali che, sulla base delle informazioni già acquisite, presentano la maggiore criticità ambientale” ». Con una serie di “acrobazie” l’ente elettrico avrebbe, dunque, voluto trattare quei “rifiuti” come meri “materiali di riporto”.

“Quattro soldi”

Insomma, voleva liberarsi del problema con “quattro soldi” e senza le precauzioni che la legge imponeva. Ci ha provato in tutti i modi a “scappottarsi” dall’onere della bonifica, come capita spesso in questa terra di nessuno. È arrivata persino a sostenere che «le ceneri e il materiale di riporto presenti nell’Area 5 costituirebbero un tutt’uno con il suolo, risultando di fatto impossibile tecnicamente la rimozione selettiva, dovendosi, dunque, applicare la disciplina del “suolo”».

Reperto geologico

In poche parole, secondo l’Enel, quei “rifiuti” in quell’area ci sono da così tanto tempo (perché non li ha mai tolti prima) che si sarebbero trasformati come per “miracolo” in un “reperto” geologico, non separabile dal suolo. Ovviamente a quella tesi così fantasiosa non ha creduto nessuno. La Regione sarda per prima, con il Servizio competente dell’Assessorato all’Ambiente: «I materiali presenti nell’Area 5 sono costituiti da una miscela eterogenea di ceneri di carbone e sterili di miniera, che compone un orizzonte stratigrafico specifico rispetto alle caratteristiche geologiche e stratigrafiche naturali del terreno nel sito».

Rifiuti, non riporto

In pratica, mai e poi mai, quei “rifiuti” potevano passare come “materiali da riporto”. Il Ministero dell’Ambiente, però, alla fine dei conti, il 2 ottobre del 2020 decide: l’Area 5 è integralmente da assoggettare al regime dei rifiuti e l’intervento deve essere inquadrato all'interno delle disposizioni di sicurezza previsto per le discariche. Il progetto, controverso e per molti versi confuso dell’Enel, è bocciato. È qui che l’Ente elettrico, privatizzato per la “santa” causa della finanza di Stato, sceglie la strategia del “prendere tempo”.

La via dei Tribunali

Preferisce tentare la strada dei Tribunali piuttosto che metter mano alle bonifiche di quella distesa infinita di 14 ettari di rifiuti confinati sulla riva del mare, attaccata alla centrale di Portovesme. Alla fine, però, gli è andata male, seppur dopo 21 anni dall’inclusione di quell’Area 5 nel “quartier generale” dell’inquinamento del Sulcis. Dopo aver “maledettamente” perso al Tar Sardegna, il 20 luglio del 2023, con una condanna forte e chiara, ieri è stato il Consiglio di Stato, l’ultimo grado della giustizia amministrativa, a sentenziare: sono rifiuti, non si sfugge per alcun motivo alle norme sulle bonifiche di siti industriali. Non gli è bastato cambiare avvocato in corso d’opera che arrivano persino ad evocare l’Europa e la Corte di Giustizia.

Ricorso infondato

I Magistrati dell’ultimo appello, Vincenzo Neri, Presidente, Francesco Gambato Spisani, Giuseppe Rotondo, Michele Conforti, Consiglieri e Luigi Furno, Consigliere Estensore, usano la severità necessaria per censurare le motivazioni dell’Enel definite il più delle volte totalmente infondate: «Dal riportato quadro regolatorio emerge che, nell’ipotesi in cui le fonti inquinanti siano costituite da rifiuti stoccati, la messa in sicurezza deve trovare collocazione nel quadro del più ampio regime autorizzatorio di cui al Titolo IV previsto per le discariche di rifiuti». Nel dispositivo della sentenza emergono, poi, principi sacrosanti decisivi per tutti i casi di inquinamento industriale: «le norme devono essere interpretate nel senso di escludere la possibilità di messa in sicurezza permanente nell’ipotesi in cui le fonti inquinanti siano costituite da rifiuti stoccati».

Fuga dalle bonifiche

Passaggi rilevanti, considerato il plurimo tentativo di far passare la tesi che le “bonifiche” si fanno coprendo le aree inquinate “a colpi” di pannelli solari, come aveva proposto la stessa Enel nel sito di Portovesme. Una strategia che irresponsabilmente si sta consumando a Macchiareddu, Ottana e Porto Torres, solo per citare i casi più eclatanti. Respinto al mittente anche il tentativo di Enel di invocare la Giustizia europea. Scrivono i Giudici: «i progetti per i quali si prevede un impatto ambientale rilevante, per la loro natura, le loro dimensioni o la loro ubicazione, devono essere sottoposti a una valutazione dell'impatto prima che venga concessa l'autorizzazione».

Pagate bonifiche e spese

La richiesta dell’Enel di sottoporre il caso Sulcis alla Corte di Giustizia viene “sbeffeggiata” dal Consiglio di Stato: «l’interpretazione del diritto dell’Unione invocato dall’appellante si impone nel caso in esame con un’evidenza tale da non lasciar adito ad alcun ragionevole dubbio». Come dire, lasciate perdere che non vi conviene invocare l’Europa. Ricorso respinto, sonoramente. Il Consiglio di Stato, caso più unico che raro, li condanna a pagare anche le spese processuali. Incassano il successo i legali della Regione, l’Avvocato Generale Mattia Pani e il collega Giovanni Parisi. Una sentenza decisiva per contrastare ovunque i “furbetti” delle bonifiche mai fatte.

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