Prima sottovoce, poi sussurrato. Altro che nebbia. Nel Paese dei misteri, delle stragi impunite, degli aerei civili colpiti e abbattuti da missili militari, gli agguati a colpi di tritolo in mezzo alle autostrade, tutto è possibile. Anche trent'anni dopo. L'immane tragedia che trasformò in una bara di fuoco il traghetto Moby Prince, uccidendo 140 persone tra passeggeri e equipaggio, 26 le vittime sarde, riapre in modo dirompente un capitolo sino ad oggi rimasto nascosto, omesso e dimenticato.

La più nefasta di sempre

Si tratta della più nefasta tragedia di mare mai registrata in Italia, con la Sardegna drammaticamente vittima e protagonista. Uno dei più subdoli segreti di Stato, rimasto tale da quel 10 aprile 1991 ad oggi. Ora, però, quelle ombre pesanti come macigni non sono più suggestioni, come avevano cercato di far credere apparati giudiziari e militari. Un'ecatombe giudiziaria che in trent'anni ha lasciato impunita la strage della Moby Prince. A far luce su quell'impressionante caterva di misfatti ci provano, ora, la Procura antimafia di Firenze e quella di Livorno. Tasselli rimasti seppelliti nell'indifferenza e nelle omissioni di Stato e non solo. Ci sono i pizzini e le confessioni, quelle rese spontaneamente e quelle occultate. I magistrati hanno tolto la polvere, riavvolto i nastri, riposizionato tasselli ignorati o nascosti. Cosa realmente sia accaduto quella notte nella rada del Porto di Livorno è ancor oggi un mistero assoluto.

La favola della nebbia

Impossibile credere alla favola della nebbia, surreale pensare ad una distrazione della plancia di comando. Di certo, alle 22.25 di quel 10 aprile 1991, quando il buio profondo avvolgeva la baia di Livorno, il traghetto Moby Prince, gruppo Navarma, diretto in Sardegna, si è schiantato contro la petroliera Agip Abruzzo del gruppo Eni. In quella rada, però, non c'erano solo le due navi in collisione. Ci sono quelle americane, navi militari, cariche di armi e di ogni genere di esplosivo, appena rientrate dall'Iraq. E poi ci sono quelle ignote, con nomi in codice e criptate dai radar del porto. Le frequenze del Moby Prince, quelle del canale 16, sono sovraffollate. Si sovrappone di tutto e di più. Tutti parlano di una bettolina in fiamme. In realtà quella "bettolina" avvolta dal fuoco vivo è proprio la Moby Prince. Tutti ignorano e nessuno le va incontro per prestare soccorso. Il contesto è inquietante. Ci sono le verità parallele, quelle che raccontano le sentenze e quelle dei documenti scritti e ignorati a tutti i livelli. Sono gli 007 che senza mezzi termini parlano di una strage che si inquadra in una «mappa concettuale» dedicata al «traffico di materiale bellico recuperato, di scorie nucleari e di armi». E, come un siluro sulle sentenze a vuoto già emesse, ritorna in auge quella perizia della Polizia scientifica trasmessa il 28 febbraio del 1992, con il codice segreto, al ministro dell'Interno di allora, Vincenzo Scotti. Gli esperti del Viminale entrano dentro la nave e sentenziano: «Si sono evidenziate tracce di esplosivo di uso civile, rinvenuto all'interno di un locale a prua della nave, ove probabilmente alcuni istanti prima della collisione, avvenne una deflagrazione».

Top secret

L'appunto riferisce al ministro l'esito della riunione riservata: «I dati analitici ottenuti con le diverse tecniche hanno permesso di identificare i seguenti composti: i primi cinque sono tipici di composizioni esplosive ad uso civile, denominate come gelatine-dinamiti, mentre gli altri due sono presenti soprattutto in esplosivi militari e in plastici da demolizione (Semtex). È stato accertato che le sostanze identificate, con la sola eccezione del nitrato di ammonio, sono tutti esplosivi ad alto potenziale, sia singolarmente che in miscela». Parole e analisi soppesate, finite direttamente nelle mani del rappresentante del governo. Con una conclusione che avrebbe dovuto imprimere ben altra storia a questa strage impunita. Quella relazione ignorata scolpisce una tesi senza appello: «Considerando l'elevata probabilità che cinque degli esplosivi provengono da un esplosivo commerciale per uso civile, mentre gli altri due da un esplosivo plastico e da una miccia detonante, si può affermare di essere in presenza di un congegno esplosivo al quale manca, per essere completo, solo il detonatore».

Il pentito

Ed è qui che si inserisce la testimonianza del super pentito della 'Ndrangheta Filippo Barreca. In piena emergenza Covid ha svuotato il sacco su quanto succedeva nel porto di Livorno e i legami con la tragedia del Moby Prince. Nel 1991 è l'Ndrangheta che gestisce i traffici illeciti in quello specchio acqueo. Intrecci spaventosi, dalle navi americane in rada davanti alla base militare di Camp Darby, alla nave somala coinvolta nel traffico di armi e ai legami con le navi affondate nel Mediterraneo cariche di rifiuti. A questo si aggiunge l'ultimo fascicolo "dimenticato" per trent'anni. Trascrizioni e registrazioni fatte sparire come se niente fosse. Ora sono all'esame della Procura di Livorno. Un plico tutto dedicato alla presenza di tritolo e plastico nel locale motori della prua del Moby Prince. Nel carteggio è esplicito il richiamo al ruolo della mafia con tanto di richiesta estorsiva di 2 miliardi di lire per raccontare tutto ai giudici. Atti che spalancano, con altre due registrazioni audio - mai acquisite nel passato dalla Procura - la guerra tra clan per il governo del Porto toscano, dalle armi al petrolio. Non è un caso che ora si indaghi, trent'anni dopo, per strage. Ad occuparsene, insieme ai giudici di Livorno, è l'Antimafia.

Mauro Pili
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