Leggo "Dove: la dimensione di luogo che ricompone impresa e società", di Venturi e Zandonai (Egea 2019), e mi colpisce perché ritrovo una serie di considerazioni che da qualche tempo andavano affollandosi senza trovare una sintesi. Dice la presentazione: «I luoghi, una dimensione di vita sociale, politica ed economica che sembrava perduta o indebolita con la globalizzazione. Non è così: l'unico modo di cavalcare il cambiamento è partire dal "dove", vale a dire dai luoghi dove si fanno comunità e relazione».

Dissento con la visione d'insieme che dà il merito di quanto sta avvenendo alla stessa globalizzazione, senza chiarire che quello che ribolle è proprio una disperata reazione a fenomeni tendenti a cancellare la specificità del "dove". Non concordo con il velleitarismo che racconta di «diffuse sperimentazioni e di florilegio d'iniziative» (non esageriamo) per «cavalcare il cambiamento», quando la realtà è diversa e la posta più alta. È in gioco la nostra identità e la nostra cultura, quindi la nostra sopravvivenza come esseri liberi e pensanti e non come formiche economiche.

Mi suscita perplessità che non si parli dell'attacco del neo-liberismo che persegue un'uguaglianza di sottoproletari dominati da un'oligarchia di pseudo-illuminati, e addirittura si citino esempi che non sono altro che il portato di una politica di globalizzazione calata sul locale. Purtuttavia, la trattazione pone l'accento sull'importanza della dimensione territoriale e comunitaria, sulla necessità della rigenerazione dei luoghi, della partecipazione e della coesione.

E questo è il messaggio da salvare e sul quale riflettere.

Noi siamo fatti di luoghi che le politiche che abbiamo vissuto hanno cercato di trasformare in non-luoghi. Sardegna, Barbagia e Nuoro hanno ad esempio un'identità tanto forte e persistente che secoli di colonialismo avido e crudele, decenni d'ideologie fuorvianti e interpretazioni superficiali (si pensi solo alle risultanze della Commissione Medici che dava una connotazione criminogena a un'intera popolazione e arrivava ad auspicare insediamenti colonizzatori per risolvere il problema) non sono ancora riusciti a cancellare.

Nuoro doveva essere, nell'immaginario di una classe politico-dirigenziale staccata dalla realtà, una città di 80mila abitanti, non si sa se provenienti da Giove, Nettuno o Anzio, e che si sarebbero nutriti di qualche manna ancora da inventare, perché non era per niente chiaro il modello economico (il terziario assistito?) che avrebbe sostenuto una simile crescita. Sull'onda di tale utopia è stato spopolato il centro storico e sono stati abbattuti i simboli della comunità. Per creare che cosa? Un non-luogo: quartieri dormitorio di cui non c'era certo bisogno, infrastrutture che ancora pesano come macigni sulle casse del Comune, case e spazi che la mancanza di lavoro e di giovani ha condannato a essere costose prigioni per anziani soli.

Ancora: il mondo pastorale sardo è fatto di luoghi, ognuno legato all'attività del pastore, e solo un criminale disegno può pensare di ridurlo a un non-luogo popolato di semplici mungitori alle dipendenze di una qualche centrale di trasformazione (migliaia di aziende agropastorali hanno già pagato lo scotto di questa politica di cancellazione). La pastorizia è la base della nostra identità ed è elemento fondante della nostra cultura, è la tradizione che si perpetua, è persino l'insieme dei nostri enzimi. Come possiamo permettere che il nostro essere sardi si modifichi a causa di forze imposte e un intero territorio diventi l'anello più debole di una catena del valore aliena, una filiera che non ripartisce ma porta i margini di guadagno fuori dalla Sardegna?

«La qualità relazionale e le norme sociali che popolano i territori e si addensano nei luoghi diventano premessa dello sviluppo» insegna il libro, e scoperchia cinquant'anni di errori che hanno intaccato la capacità relazionale e il nostro potere di farci comunità. «È intorno a un carattere aperto e connesso dei legami sociali che oggi si gioca la partita del locale». Ergo, per contrastare quest'opportunità basta respingerci nella gabbia in mezzo al mare, penalizzare la continuità territoriale e nello stesso tempo farci sentire colpevoli. Dobbiamo riscoprire la Sardegna come comunità, come luogo meraviglioso da difendere, contare su noi stessi e aprirci al mondo, non suicidarci.

Ciriaco Offeddu

(Manager e scrittore)
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