È di qualche giorno fa l’appello lanciato dai Riformatori Sardi al neo eletto Governatore Solinas al fine di ottenere, da parte del Governo, l’apertura di un Tavolo di Trattative a tutela delle ragioni autonomistiche isolane minacciate dall’ipotesi, sempre più concreta, dell’attuazione di un regionalismo differenziato a favore delle regioni ricche ed “egoiste” del nord (per usare una espressione di Pietrino Fois): Lombardia –Veneto – Emilia Romagna.

In particolare, stando anche alle dichiarazioni di Gian Benedetto Melis, la Sardegna non chiederebbe una elemosina ma solamente che le siano riconosciute le “partite finanziarie ancora aperte” come gli “accantonamenti e le accise sui prodotti petroliferi”.

Di certo non si può negare che le preoccupazioni dei Riformatori siano in qualche modo fondate giacché tutti siamo più o meno consapevoli che occorra valorizzare ed attuare la c.d. specialità autonomistica sarda (assai diversa dall’ideologia indipendentista che invece presuppone il distacco dei sardi dal sistema di governo italiano) attraverso il rafforzamento proprio di quell’imprescindibile, ed oltremodo attuale, principio di specialità il quale deve, a tutt’oggi, e purtroppo, essere adeguato sia con riferimento alla conformazione geografica del territorio sia, di conseguenza, alla sua struttura economica e sociale ancora troppo debole ed inidonea a garantire una effettiva ed efficace presenza della Sardegna in quella che viene definita l’Europa delle Regioni.

Ed è altrettanto certo che l’iniziativa (risalente al 2017) delle tre richiamate regioni a statuto ordinario (non speciale come quello della nostra terra), sostenuta dalle elite della nuova destra del nord (Lega), non solo ha riportato alla ribalta un tema tanto scottante quanto inflazionato in occasione della oramai costante campagna elettorale, ossia il riconoscimento della cosiddetta autonomia differenziata ai sensi dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione, ma ha pure condotto alla sottoscrizione, nel febbraio dello scorso anno, di tre distinti accordi preliminari col Governo all’epoca in carica aventi ad oggetto le modalità di attuazione, i principi, ed una prima elencazione delle materie su cui esercitare la richiesta autonomia.

Ma siamo proprio sicuri che il percorso autonomistico delle regioni a Statuto Ordinario vada davvero auspicato, seguito, e portato fino in fondo? E siamo poi così sicuri che le Regioni a Statuto Speciale, le quali godono già, quanto meno sulla carta, di piena autonomia, abbiano maggiori benefici rispetto a quelle a statuto ordinario?

Io, sinceramente, ritengo di no.

Intanto perché, per quanto concerne le regioni a statuto speciale, il fatto di godere di maggiori benefici dipende esclusivamente dalla loro capacità di gestione delle risorse disponibili, evidentemente eccellenti (capacità e risorse si intende) in alcuni casi (Friuli e Trentino) e scarsissime in altri (Sicilia e Sardegna).

Quindi, perché la richiesta di attuazione dell’autonomia differenziata in favore delle regioni a statuto ordinario di cui all’articolo 116, terzo comma della Costituzione, ha come unico obiettivo solo il raggiungimento della autonomia fiscale al fine di poter trattenere sul territorio della regione interessata la maggior parte del ricavato delle imposte incidendo così direttamente, ed in negativo, sul quantum da trasferire allo Stato per la c.d. redistribuzione.

In rosso le regioni italiane a statuto speciale (Pixa bay)
In rosso le regioni italiane a statuto speciale (Pixa bay)
In rosso le regioni italiane a statuto speciale (Pixa bay)

Inoltre, perché l’autonomia giova unicamente a quelle regioni “diligenti” e già ricche capaci di investire gli introiti per il sostegno alle imprese, per la creazione di posti di lavoro etc.

Infine, perché, sebbene l’articolo 120 della Costituzione preveda un non meglio precisato intervento perequativo dello Stato nell’ipotesi di forti disuguaglianze, è tuttavia innegabile che venendo meno le risorse finanziarie allo Stato centrale in ragione del riconoscimento della autonomia fiscale a talune specifiche regioni, necessariamente quelle più povere riceverebbero meno aiuti con tutto ciò che ne conseguirebbe sul piano gestionale locale.

Tanto detto, e pur non essendo in assoluto critica, quantomeno in astratto, in merito alle opportunità autonomistiche offerte dal nuovo articolo 116, terzo comma della Costituzione, ritengo fermamente che, in questo preciso momento storico, caratterizzato da forti disuguaglianze economiche e sociali tra il nord ed il sud del paese, le aspirazioni regionalistiche non possano essere fatte oggetto di proclami utili solamente a realizzare una forma di secessionismo travestito (facendo così rientrare dalla finestra ciò che è sempre stato fatto uscire di gran carriera dalla porta), ma debbano piuttosto essere fatte oggetto di una seria riflessione e concreta discussione che abbia come finalità la realizzazione di uno Stato nel suo complesso competitivo tanto a livello centrale quanto a livello territoriale, in grado di affrontare le problematiche di una economia sempre più rivolta alla internazionalizzazione.

In questo senso, e proprio con riferimento specifico alla mia terra, la Sardegna, ritengo che non occorra avere tanta fretta, ma sia innanzitutto necessario prendere consapevolezza del fatto che a tutt’oggi il governo locale non è stato capace, nonostante la sua già piena autonomia, di sviluppare un effettivo autogoverno, di valorizzare le specificità regionali, di intervenire direttamente nei confronti del Governo Centrale per la tutela dei diritti dei sardi.

Far valere oggi una autonomia che non siamo mai riusciti ad esercitare anche in ragione della estrema povertà del nostro territorio, significa solo pretendere di far correre una 500 vintage arrugginita col motore di una Ferrari testa rossa: mission impossible.

Giuseppina Di Salvatore

(Avvocato - Nuoro)
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