A pesare sulla risalita vertiginosa dello spread a quota 340 - ora sceso a 315 - sono stati il severo giudizio arrivato ieri all'Italia da Bruxelles sulla manovra finanziaria stilata dal governo giallo-verde e le tensioni sul Decreto fiscale tra gli alleati dell'Esecutivo.

In generale, però, a influire sull'andamento di questo termine inglese entrato prepotentemente nel linguaggio quotidiano sette anni fa, all'epoca della fine del governo Berlusconi, è il clima di preoccupazione che aleggia sul nostro Paese, sulla sua stabilità finanziaria e sulla sua capacità di rimborsare gli investitori.

Abbiamo ormai acquisito che lo spread sintetizza la differenza tra il rendimento dei nostri titoli di Stato e quelli tedeschi, considerati tra i più stabili e affidabili e per questo presi come termine di raffronto: l'Italia vende a investitori come banche, fondi e singoli risparmiatori i propri titoli di Stato per finanziare la propria spesa, con l'impegno a rimborsarli a un certo tasso di interesse.

Qui sta il rendimento degli investitori e il prezzo che l'Italia deve pagare per vendere i propri titoli e farsi così prestare denaro, che aumenta quanto più sale il differenziale tra noi e la vicina Germania: se lo spread è vicino al valore tedesco, il Paese è considerato "affidabile" e gli si può prestare denaro a interessi più bassi, perché l'investimento è considerato meno rischioso.

E quel termine inglese entra così di diritto nel nostro vivere quotidiano, perché dalla salute economica del nostro Stato dipendono sì gli investimenti stranieri, ma anche questioni molto concrete che ci riguardano da vicino, come i costi dei mutui e dei finanziamenti già attivi o da accendere con le banche, e la nostra capacità di spesa.

Quanto agli investimenti, va detto che già dall'estate gli osservatori registrano una "fuga" di capitali esteri dal nostro Paese, con quasi 18 miliardi di euro in titoli venduti nel solo mese di agosto.

Nel secondo caso, mutui e finanziamenti, il meccanismo di "aumento" per i risparmiatori viene innescato da chi ci presta i soldi, ovvero le banche - con in pancia titoli di Stato - che con lo spread che sale vedono aumentare a loro volta gli interessi da pagare agli investitori per l'acquisto delle loro obbligazioni.

Aumenti e costi che si riversano sui tassi d'interesse dei mutui, anche se diversi analisti fanno notare che l'effetto non è così immediato come spesso viene detto, creando peraltro allarmismo tra i risparmiatori e facendo da deterrente alla spesa e agli investimenti.

Un serpente che si morde la coda. Una situazione non nuova, che dipende sì dalla speculazione di certa finanza, ma soprattutto dall'incapacità di riportare in equilibrio la bilancia economica e il rapporto entrate e uscite del Paese, risolvendo o almeno correggendo il meccanismo per cui si spende più di quanto si dovrebbe e ci si indebita più di quanto sia sostenibile.

(Unioneonline/b.m.)
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