Lo skyline del Monte Linas traguarda l’orizzonte del “Paese d’ombre” violato come non mai dalle pale eoliche che si stagliano sul cielo di Villacidro come una foresta d’acciaio senza futuro. Terra ricca, campi rigogliosi bagnati dal rio Leni che d’inverno si fa corso d’acqua impetuoso per alimentare gli agrumi più pregiati dell’Isola. La ciminiera della fonderia di San Gavino si contende il primato delle nuvole con quelle dismesse della petrolchimica di Stato che in quella piana, scippata ai campi agricoli, ha smesso di produrre quando gli anni novanta non avevano ancora varcato l’ultimo decennio del secolo scorso.

Nella terra di mezzo

Eppure in questa terra di mezzo, nel Campidano agricolo, da tempo si affaccia un’insidia silenziosa, spacciata come miracolo “fertilizzante” per le campagne che si distendono ai piedi di quella montagna che separa uliveti e agrumeti dalla frastagliata costa verde. I dati a volte parlano più di ogni commento. Sono come un aratro in quelle distese di terra: lasciano solchi profondi e dissotterrano una verità che per troppo tempo è rimasta immersa nei cassetti di una burocrazia che non controlla e rivolge semmai l’attenzione altrove. Il fenomeno che negli ultimi anni sta segnando queste terre, nella disattenzione o irresponsabilità, è il cosiddetto riutilizzo dei fanghi fognari nei campi agricoli. Una pratica sempre più diffusa e sempre più incontrollata, lasciata alla mercé di chi gestisce questo mercato, con leggi sempre meno chiare e interpretazioni mai certe. Analisi chimiche affidate a chi produce quei fanghi e a coloro che li scaraventano nelle terre agricole.

Analisi & verbo

Il pubblico, quello statale e regionale, si limita a qualche campione spot, limitandosi ad acquisire il “verbo” del gestore. Poi niente più. Poco importa se quei terreni hanno raggiunto il giusto equilibrio chimico fisico, se le qualità organolettiche di quei prodotti sono un bene esclusivo da marchio Dop. Poco ci si preoccupa delle falde idriche pronte a distribuire in ogni dove quelle sostanze fognarie captate dal terreno violato. Quando si incontrano l’interesse a smaltire senza perdere troppo tempo, a costo zero, quei fanghi fognari e l’interesse a “pompare” al massimo la produzione agricola, il gioco è fatto. In teoria guadagna, molto, chi gestisce quei fanghi, per conto di una società pubblica, Abbanoa, e guadagna, niente, chi li riceve nelle proprie terre. Un dato, però, è certo: in fin dei conti, quello che realmente c’è dentro quei fanghi lo sanno in pochi. E del resto le norme vigenti, sempre più permissive, non prevedono un’analisi ad ampio spettro. Come se lo Stato, pur sapendo del pericolo, preferisca non sapere. Il ministro della Transizione ecologica, nei giorni scorsi, colto all’improvviso da un microfono insidioso ha dichiarato che la norma deve cambiare, ma si sa, dalle parole ai fatti c’è di mezzo una montagna di interessi. Tanti quanti hanno fatto lievitare gli scarichi fognari nei campi della Sardegna a tal punto da raddoppiare il quantitativo di reflui di depurazione negli ultimi 15 anni. Si è passati dalle 7.000 tonnellate di fanghi rovesciate nelle terre agricole dell’Isola nel 2005 alle quasi 14 mila del 2019. Una crescita esponenziale per la quale non sono mancate le parole trionfanti, come se riempire i campi agricoli di quel materiale fosse una conquista di civiltà.

Il raddoppio

Lo stesso vale per i terreni coinvolti da questa escalation: nel 2005 erano stati utilizzati 1.378 ettari agricoli per riversare quei fanghi, nel 2019 il doppio, 2.639 ettari. Un fenomeno, dunque, che non solo non va sottovalutato, ma che deve far riflettere in termini di futuro e di coscienza. A tutto questo si aggiunge che questo peso fognario è concentrato in pochissimi areali, in un palmo di mano di comuni che da soli si “accaparrano” un quantitativo di fanghi da primato. Non proprio una vocazione quella del Medio Campidano a ricevere un quantitativo così abnorme di questi fanghi. Non certo una libera scelta colturale, ma semmai una scelta che ricade tutto sul principio del massimo utile con il minimo sforzo. La società che gestisce questi fanghi è proprio lì, nella strada di connessione tra Villacidro, San Gavino e Sanluri. Quale migliore risultato economico di spandere quei fanghi risparmiando persino nella scelta dei terreni più prossimi all’impianto? Poco carburante, poco tempo, tutto a portata di mano.

Meno spesa, più guadagno

Non si spiega diversamente il dato che vede San Gavino come primo comune sardo per lo scaricamento di quei fanghi “idilliaci” nei terreni agricoli circoscritti in quel territorio comunale. L’analisi appena pubblicata dalla Regione è schietta: «Il Comune di San Gavino occupa il primo posto sia per quantità conferite, con più di 3.600 tonnellate, sia per superficie interessata, con 576 ettari». Un quantitativo rilevantissimo tutto concentrato nella via di mezzo tra Sanluri, sede della società che gestisce quei fanghi per conto di Abbanoa e degli spagnoli, e il comune di Villacidro. Se si esclude Sassari, secondo comune nella graduatoria del riutilizzo agricolo di quel materiale, con più di 3.400 tonnellate su 467 ettari, il secondo territorio comunale dedito all’utilizzo di quei reflui è proprio il Paese d’ombre, Villacidro, che su una superficie di quasi 2.200 ettari ha visto, solo nel 2019, riversarsi in quei terreni quasi 450 tonnellate di fanghi. Il dato del Medio Campidano, dei soli 4 comuni ricadenti nell’areale più ristretto dell’impianto di stoccaggio di quei fanghi, è da solo impressionante. Da soli i comuni di San Gavino, Villacidro, Gonnosfanadiga e Guspini raggiungono il 50% dell’intero scaricamento agricolo dei fanghi della Sardegna. Senza andare troppo lontano, nel raggio di qualche km, Villacidro e San Gavino raggiungono quasi 6.000 tonnellate di reflui scaricati nei terreni agricoli superando abbondantemente i mille ettari coinvolti in queste operazioni. I comuni di Uta e Ozieri seguono per superficie di spandimento, entrambi con 160 ettari, ma il primo arriva a superare le 890 tonnellate di fanghi mentre il secondo raggiunge la ragguardevole soglia delle 640. Se ai primi cinque comuni in graduatoria (nella tabella a lato) si somma Solarussa, sesto comune sia per superficie che per quantità sparse, si sfiora il 75% della superficie agricola sarda interessata dal rovesciamento agricolo dei fanghi. Con i restanti nove comuni che superano i 100 ettari si copre l’88% della superficie interessata. Se si analizzano i 7 comuni che superano le 500 tonnellate sversate si sfiora l’86% del totale conferito.

La casualità

Il dato è fin troppo evidente: il massimo utile economico si raggiunge utilizzando i terreni più vicini all’impianto. Non un’attenta analisi geologica, dei valori chimico-fisici dei terreni, dei gradienti di ph, ma semmai una “casuale” corrispondenza di queste pratiche proprio in prossimità dell’impianto. Lo spettro geografico, però, si sposta anche su altri versanti. Con più di 100 ettari coinvolti, ci sono i comuni di Siliqua, Decimomannu e Siamaggiore. Superano le 100 tonnellate conferite anche Vallermosa, Guspini, Gonnosfanadiga e Tula. Una mappa esiste anche per quanto riguarda le colture che vengono interessate da questi sversamenti di fanghi fognari.

Foraggere

Rispetto all’ultimo censimento si registra un ulteriore incremento di quei terreni destinati alle colture foraggere, passando dal 70% dei fanghi riutilizzati del 2018 all’ 80% del 2019. Una concentrazione sui mangimi zootecnici che sta facendo venir meno l’utilizzo di questo materiale in frutteti e uliveti. Sintomo evidente che l’agricoltura di pregio non sta cedendo alle “laute” magnificenze declamate per cotanto scarto fognario. Non è meno delicata anche la catena alimentare delle foraggere, direttamente connessa con il settore zootecnico. Un quadro d’insieme che lascia comprendere la delicatezza della questione e l’assenza di una vera e propria azione di prevenzione in grado di evitare rischi sia per l’ambiente che per la salute. Rischi sanciti e ribaditi dalla sentenza, senza appello, del Consiglio di Stato proprio sulla Sardegna. Più che una decisione finale una pietra tombale sull’approssimazione postuma nel trattamento di questi fanghi di depurazione. Ad aprile dello scorso anno, senza clamore, l’alta corte amministrativa ha sentenziato proprio sulla gestione dei fanghi da parte della stessa società monopolista che gestisce i reflui di Abbanoa per conto degli spagnoli, vincitori del mega appalto della società pubblica delegata al governo dell’acqua. I giudici sono stati irremovibili: «l’utilizzazione in agricoltura dei fanghi e quella relativa ai rifiuti, finalizzata alla più ampia protezione dell’ambiente, implica inevitabilmente un’indagine analitica accurata che escluda il rischio di contaminazioni delle matrici ambientali, e segnatamente dei suoli, e verifichi se questi ultimi non siano già, a loro volta, connotati da contaminazioni rilevanti».

L’opposizione di Dorgali

Ad opporsi allo scaricamento dei reflui del depuratore di Ottana erano stati la provincia di Nuoro e il comune di Dorgali: il loro divieto all’utilizzo di quei fanghi fognari era stato netto. L’Arpas aveva sostenuto che quei reflui fossero una “possibile fonte di inquinamento” dei fanghi provenienti dall’impianto di depurazione di Ottana. La disposizione della provincia fu senza appello: divieti di utilizzo in agricoltura dei fanghi provenienti dall’impianto di depurazione da esso gestito fino alla bonifica dell’area potenzialmente contaminata dallo sversamento di paraxilene e i rifiuti derivati dalle operazioni di bonifica fossero stati correttamente smaltiti, nonché di trattamento nell’impianto di depurazione di rifiuti non autorizzati. La società di Sanluri non ne volle sapere di rinunciare a scaricare anche quei fanghi nei terreni agricoli di Dorgali e fece ricorso al Tar per respingere quel divieto. In prima istanza, il tribunale amministrativo, gli diede ragione. Il Consiglio di Stato, invece, nei mesi scorsi ha ribaltato quella sentenza: «Il Collegio ritiene che, con riferimento alla fattispecie in esame, occorra dare seguito all’indirizzo di questo Consiglio che ascrive alla portata “anticipatoria” del principio di precauzione ambientale».

Rischi e pericoli

Come dire, si deve prevenire ogni danno ambientale con analisi puntuali e approfondite, anche oltre le disposizioni legislative, evitando l’irreparabile. Ed è il Consiglio di Stato, nella stessa sentenza sarda, a segnare un altro pilastro giuridico, ancora ignorato nell’Isola: è assolutamente legittimo, come ha fatto la Provincia di Nuoro, mettere in campo ogni azione preventiva «in relazione ad un’attività potenzialmente pericolosa, idonea a determinare rischi che non sono oggetto di conoscenza certa, compresa l’ipotesi di danni che siano poco conosciuti o solo potenziali». Uno scontro giudiziario che ha fatto prevalere la lungimirante logica della prevenzione, da anteporre ad un’attività, come si è più volte visto nelle inchieste giudiziarie, potenzialmente pericolosa. Una tutela da porre al di sopra di ogni altro interesse economico. Ma si sa, sui fanghi fognari ruotano affari milionari, ancora tutti da svelare.

(2.continua)

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