Giorgio de Santillana (1902-1974) non è oggi notissimo al vasto pubblico. È, però, uno dei tanti italiani che nel corso del Ventennio fascista ha lasciato il nostro Paese per cercare fortuna negli Stati Uniti. In questo Paese ha insegnato al MIT di Boston ed è diventato un’autorità nell’ambito della storia della scienza, tanto che i suoi libri, come “Il mulino di Amleto. Saggio sul mito e sulla struttura del tempo” (1969) sono oggi considerati dei classici della storia del pensiero.

Prima di diventare un intellettuale e accademico famoso, De Santillana è stato però un giovane intellettuale di talento che cercava di emergere nell’Italia di Mussolini. Erano anni in cui il discrimine tra bene e male, tra opposizione al regime fascista, indifferenza e tacito consenso era spesso sottile. Era un discrimine ambiguo, “amletico” come fu ambiguo e “amletico” l’atteggiamento di Giorgio de Santillana. Un’ambiguità che pesò quando nel 1936 da giovane storico della scienza lasciò l’Italia per cercare fortuna accademica e sicurezza economica in America. Amico di molti antifascisti, entrò, però, nel mirino di Gaetano Salvemini, la coscienza morale della lotta al fascismo fuori d’Italia, che in privato avvisò gli amici di non dare confidenza a de Santillana. Ma allora questo illustre pensatore così celebrato oggi negli Stati Uniti e in Europa fu un oppositore del fascismo, un fiancheggiatore del regime o, peggio ancora, spia infiltrata tra i fuoriusciti italiani?

La copertina del libro
La copertina del libro
La copertina del libro

Da queste domande è partito Michele Camerota, docente di Storia delle scienze e delle tecniche all’Università di Cagliari, nel suo saggio intitolato “Il fantasma di Amleto. Giorgio Santillana tra Salvemini e Mussolini” (Hoepli Editore, 2024, pp. 208, anche e-book). Frutto di una lunga ricerca in archivi pubblici e privati, italiani e americani, il volume non si propone di condannare o assolvere un uomo che visse, come molti della sua generazione, in tempi difficili. Ricostruisce piuttosto un caso di coscienza mettendo in risalto come il Ventennio fascista costringesse spesso gli intellettuali e non solo loro all’opacità, a vivere in una quotidiana condizione di malafede, per usare una celebre definizione Guido Piovene. Questo grande scrittore e giornalista definì con chiarezza illuminante la malafede come «una menzogna consapevole e inconsapevole». E ancora come «un’arte di non conoscersi, o meglio di regolare la conoscenza di noi stessi sul metro della convenienza». Insomma, la malafede non era tanto cortigianeria, ma una fede o fiducia distorta, ambigua e rosa dal dubbio e quindi amletica, che ti portava ad accondiscendere il potere anche se quel potere non era parte di te.

Santillana fu, come tanti italiani del suo tempo, impegnato in un inquieto ondeggiare tra opposte tendenze politiche, che lo portavano ad apprezzare l’antifascismo e gli antifascisti e nello stesso tempo a non poter evitare delle aderenze con Mussolini. Simbolo di questo fluttuare incerto del giovane Santillana l’incapacità di esprimere un distacco netto dal Duce e il complicato rapporto con Gaetano Salvemini, di cui Santillana cercò il consenso, ricevendo a lungo solo un freddo e sospettoso distacco. Nel 1945, a guerra finita, il rapporto tra Salvemini e Santillana risulterà però ottimo. Cosa era successo in quegli anni? Camerota raccoglie gli indizi a nostra disposizione, offre lo studio di documenti inediti e come in ogni giallo che si rispetti ci offre una possibile soluzione.

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