Eccezionale scoperta nell’area archeologica di Melka Kunture, in Etiopia, dove è stata riportata alla luce la più antica “officina” artigianale di utensili in pietra del Pleistocene inferiore.

Nel team italo-spagnolo che ha condotto la ricerca, pubblicata sulla prestigiosa rivista “Nature”, anche due ricercatrici dell’Università di Cagliari: la geo archeologa Rita Melis e la vulcanologa Laura Pioli.  

«Si tratta di una scoperta che consente di avere la conferma che gli ominidi, Homo Habilis e Homo Erectus, possedevano già la capacità di lavorare un determinato tipo di oggetti e di sviluppare nuove tecniche, facendo tesoro delle abilità acquisite, molto prima di quanto si pensava finora», spiega proprio la dottoressa Melis a L’UnioneSarda.it.

Di quanto tempo prima parliamo?

«Di oltre 1,2 milioni di anni fa, cioè 500mila anni prima rispetto ai dati finora conosciuti».

Di quali oggetti si tratta?

«Di manufatti in pietra e anche di ossidiana. Un materiale, quest’ultimo, particolarmente difficile da lavorare, perché è fragile e al tempo stesso tagliente. Sino ad oggi si pensava che a quel tempo gli ominidi non avessero un’abilità così “raffinata” nella lavorazione».

Da cosa si capisce che si tratta proprio di un’officina?

«Da molti indizi, ma soprattutto dal livello di accumulo di oggetti ritrovati, davvero impressionante».

A cosa servivano questi manufatti?

«Principalmente a scarnificare le prede, dunque erano finalizzati al nutrimento e alla sopravvivenza». 

Dove si trova il sito della scoperta?

«A Simbiro, nell’area archeologica di Melka Kunture, in Etiopia, a duemila metri d’altitudine. Fu individuato nel 1963 dall’archeologo tedesco Gerard Dekker e da allora gli scavi proseguono. L’Italia è presente dal 1999 con una missione diretta dall’università La Sapienza di Roma per conto del ministero degli Esteri».

Com’è la vita di voi ricercatori sul posto?

«Non è facile. Basti pensare che di giorno si lavora con temperature che arrivano a 40 gradi, mentre di notte il termometro scende anche sotto zero e nelle capanne dove dormiamo dobbiamo indossare anche tre o quattro felpe per proteggerci dal freddo. Inoltre, non c’è acqua, che viene presa da un pozzo da un villaggio nelle vicinanze e ci viene portata dentro bidoni a dorso d’asino». 

Com’è il vostro rapporto con la popolazione locale?

«Gli scavi sono iniziati negli anni Sessanta, quindi gli abitanti del posto sono abituati alla presenza di archeologi e ricercatori. Alcuni residenti del posto lavorano nel sito sin dall’inizio, da quando avevano 18 anni. E oggi sono dei veterani degli scavi e a volte capita che siano proprio loro a segnalarci tracce potenzialmente interessanti per i nostri studi». 

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