Il razzismo entra di frequente negli stadi di calcio. Si insultano giocatori di colore e non è raro leggere frasi antisemite sugli striscioni esposti dalle tifoserie. Tutto l’armamentario razzista e antisemita viene quasi a ogni partita sfruttato per colpire gli avversari.

Una mostra aperta fino al prossimo 14 aprile al Memoriale della Shoah di Milano, all’interno della Stazione Centrale del capoluogo lombardo, prova a farci riflettere su queste piaghe che affliggono il mondo dello sport. E lo fa raccontandoci la storia di un uomo che ha visto la propria vita distrutta dall’odio, dal razzismo, dalla violenza antisemita.

Un pannello (foto Nicolò Piuzzi)
Un pannello (foto Nicolò Piuzzi)
Un pannello (foto Nicolò Piuzzi)

Arpad Weisz, questo il nome del protagonista della mostra milanese, era un grande allenatore di calcio. Negli anni Trenta del Novecento era uno dei migliori in Europa e giunto in Italia dall’Ungheria portò allo scudetto una volta l’Inter e due volte il Bologna. Era un innovatore negli schemi e nelle strategie di gioco e capiva di calcio come pochi tanto da lanciare in serie A, a neppure vent’anni, il talento di Giuseppe Meazza, forse il più forte giocatore italiano di tutti i tempi.

Alcuni oggetti (foto Nicolò Piuzzi)
Alcuni oggetti (foto Nicolò Piuzzi)
Alcuni oggetti (foto Nicolò Piuzzi)

Weisz aveva però un grave difetto agli occhi del regime fascista al potere nel nostro Paese. Era ebreo e per quanto fosse bravo, capace, innovativo e vincente questa sua appartenenza razziale lo marchiava e lo condannava alla discriminazione e all’isolamento. Il 16 ottobre 1938, non appena entrate in vigore le leggi razziali volute da Mussolini, Weisz guidò i giocatori del Bologna alla vittoria contro la Lazio. Poi prese le sue cose e fuggì dall’Italia con la famiglia, prima in Francia poi in Olanda. Qui riprese ad allenare mentre le ombre del nazismo si allungavano su tutta Europa. Alla fine, Arpad Weisz e la sua famiglia seguirono il triste destino di milioni di ebrei europei. Furono internati, poi inviati ad Auschwitz. Moglie e figli furono uccisi nell’ottobre 1942, Arpad passò 15 mesi in un campo di lavoro per finire nelle camere a gas nel gennaio 1944.

Maglia e parastinchi (foto Nicolò Piuzzi)
Maglia e parastinchi (foto Nicolò Piuzzi)
Maglia e parastinchi (foto Nicolò Piuzzi)

In quel giorno finì la vicenda umana di Weisz, non terminò la sua testimonianza di uomo di talento costretto a rinunciare a tutto a causa dell’odio e del disprezzo per la dignità umana. Questa testimonianza alimenta la mostra milanese, intitolata "Arpad Weisz – se il razzismo entra in campo", in cui possiamo ritrovare, in una serie di pannelli espositivi e di oggetti che hanno fatto parte della storia dell’allenatore ungherese, la vicenda umana del grande mister, il clima dell’epoca in cui visse, il suo disperato tentativo di continuare a vivere in un’Europa che cercava di soffocare tutti gli ebrei sotto una coltre di violenza.

Una tavola (foto Nicolò Piuzzi)
Una tavola (foto Nicolò Piuzzi)
Una tavola (foto Nicolò Piuzzi)

La vicenda umana di Weisz diventa così un monito, un grido che suona ancora più forte nelle sale del Memoriale della Shoah, il luogo – ricordiamolo sempre - da dove partivano i treni italiani carichi di persone dirette ad Auschwitz. Persone la cui unica colpa, agli occhi dei loro aguzzini, era di essere di origine ebraica, come Arpad Weisz.
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