Quando il bosco fa più paura della guerra
Il romanzo di Aldo Simeone evoca un passato mai dimenticato del tuttoPer restare aggiornato entra nel nostro canale Whatsapp
Monti della Garfagnana, gli anni peggiori della Seconda guerra mondiale, quelli in cui Mussolini e il re tradirono nuovamente gli italiani, consegnando il Paese ai nazisti. Nel piccolo borgo di Bosconero il conflitto arriva attutito, distante anche perché attorno al paese si distendono boschi in cui gli abitanti preferiscono non entrare. Quelle selve, infatti, sono per tutti il regno degli streghi, spiriti che si aggirano in perenne processione dopo il tramonto e rivolgono a chiunque incontrino sempre la stessa domanda: "Per chi è la notte?". Non saper rispondere significa perdersi per sempre e quindi meglio stare lontani dal bosco anche se la voglia di entravi è tanta, soprattutto se si hanno undici anni e ci si sente fuori posto anche tra i compaesani.
È così, infatti, che si sente Francesco: estraneo, senza amici, additato perché il padre ha disertato e si è dato alla macchia, forse per raggiungere i partigiani. Quando poi a Bosconero arrivano i tedeschi il bosco pare animarsi sempre di più di presenze misteriose e il suo richiamo diventa irresistibile per il piccolo Francesco. Troverà la forza di opporsi al fascino oscuro dell’ignoto?
Chiaramente non è il caso di rispondere in questa sede mentre vale assolutamente la pena di ricercare la risposta leggendo il coinvolgente Per chi è la notte (Fazi Editore, 2019, euro 16, pp. 284. Anche Ebook) di Aldo Simeone, romanzo di grande forza evocativa e di sorprendente cura e ricerca nel linguaggio e nello stile. All’autore chiediamo come prima cosa quale è stata la molla iniziale per un’opera in cui dramma, sofferenza e rievocazione storica appaiono molto ben armonizzati: "La paura. Volevo esorcizzare una mia paura infantile: perdermi nel bosco. Che è poi la paura di molte favole, in cui il bosco è il vero antagonista (altro che lupi e orchi!). Ora, poiché dai timori ci si libera come dai tormentoni musicali, ovvero attaccandoli a qualcun altro, ho pensato di spaventare il lettore. Solo dopo ho aggiunto la guerra (un’altra paura, ma adulta), l’isolamento in montagna (terza paura) e gli streghi (quarta paurissima)".
Quanto c’è di vero nella storia che lei ha raccontato? Quali sono state le sue fonti di ispirazione?
"Gli scrittori sono tutti ladri di verità: dei grandi imbroglioni. Inventano cose che già esistono, e accusano di plagio Dio o il Big Bang. Io non faccio differenza. La storia, in quanto tale, è pura invenzione, come può esserlo un copriletto patchwork, composto da pezzi di recupero: una camicia, un asciugamano, un cappotto, un lenzuolo… Ma non c’è un dettaglio (o almeno un dettaglio che funzioni) che non sia preso dall’esperienza: la mia infanzia di toscano poco orientato al mare e più ai boschi e alla montagna; le confidenze di chi ha vissuto personalmente la guerra e la fame".
Perché la scelta di avere come protagonista un ragazzino?
"Per due motivi: prima di tutto, perché le vere paure sono quelle infantili, mentre le paure adulte sono 'derivate' e assai meno interessanti: il timore di perdere il lavoro, di non riuscire a pagare il mutuo, di ammalarsi… E poi perché, avendo avuto la fortuna di non conoscere la guerra, non avrei saputo descriverla in modo 'adulto', realistico. Mi serviva una lente deformante: lo sguardo 'fantastico' di un bambino".
Il libro colpisce per la cura con cui è scritto, per il linguaggio molto controllato, ben cesellato. È frutto di un lavoro particolare?
"Ho lavorato di lima. Anzi, di cartavetra: grattando e rigrattando la pagina con fogli di grana sempre più fine. Di solito, quando scrivo, la prima stesura è molto più lunga delle successive. Voltaire diceva: 'Non ho tempo, per cui non sarò breve'. Ci vogliono tempo e fatica per essere sintetici. E 'sintesi' è quasi sempre sinonimo di 'efficacia'. Da un lato cercavo un linguaggio credibile per un bambino, e per un bambino toscano di quegli anni. Dall’altro una prosa che potesse essere evocativa come le leggende e le favole popolari".
Ha avuto qualche fonte di ispirazione per poter rendere i modi di dire, il linguaggio dell’epoca?
"Mi è stata preziosa la lettura dei temi e dei diari di una bambina di Gallicano, tredicenne durante la guerra, pubblicati da un piccolo editore garfagnino. Purtroppo, ho dovuto rinunciare a molte saporitissime espressioni toscane, per privilegiare l’immediatezza della comprensione".
Ma alla fine si può rispondere alla domanda «Per chi è la notte»?
"Ciascuno può farlo, a suo rischio e pericolo. Infatti solo fornendo agli streghi la risposta corretta, si riesce a scamparla. Altrimenti, si è costretti a seguirli. Ma confesso che, se li incontrassi, sbaglierei apposta: mi piacerebbe sapere dove sono diretti e che fanno la notte… I curiosi troveranno la risposta alla domanda del titolo (anche se un po’ celata…) leggendo il romanzo. Posso però dare almeno un indizio: la risposta salvifica non è quella che gli streghi vorrebbero sentirsi dare".
Cioè?
"Essi pretendono che la notte sia fatta per loro e per loro soltanto: che sia l’altra metà del giorno da cui gli uomini, la civiltà, l’ordine, la luce sono irrimediabilmente esclusi".