Ci sono libri che accompagnano dolcemente il lettore verso il sonno. Altri che aiutano a riflettere oppure che sono buoni come passatempo. Poi ci sono libri che fanno venire voglia di comprarsi una decapottabile degli anni Sessanta e sfrecciare, capelli al vento, superando abbondantemente i limiti di velocità.

È questo l’effetto che produce “La mia Hollywood” (Bompiani, 2023, pp. 336, anche e-book), tributo alla Mecca del cinema e del divismo scritto da una delle sue figlie più affascinanti e affascinate, Eve Babitz (1943-2021).

Giornalista, festaiola, edonista convinta e impenitente, artista, musa, Eve Babitz è stata tutto questo e molto altro ancora. Ha amato vivere senza pudore e senza pudore ha inseguito il piacere, convinta che solo la bellezza, il godimento, l’inseguimento della totalità delle passioni desse un senso all’esistenza. È lei stessa a dircelo all’inizio del libro: «Quello che volevo, anche se all’epoca non capivo cosa fosse perché nessuno ti dice mai niente finché non lo sai già, era tutto. O tutto quello che sarei riuscita a ottenere con i mezzi che avevo. Soprattutto volevo una canzone di un certo tipo. Come i profumi, alcune canzoni semplicemente mi stendono. E volevo finire stesa nell’attimo del profumo in cui non senti più niente se non il bagliore. Non dura a lungo, ma per avere tutto devi avere questi momenti di un’importanza così scollegata che il tempo scorre via increspato come un’inquadratura dell’acqua. Senza questi momenti, la festa paradisiaca che ti sei costruito può morire di sete».

La copertina del libro
La copertina del libro
La copertina del libro

Raccontando se stessa e la sua eterna ricerca di quel tutto che riempie l’attimo, che rende la vita vivace, Eve Babitz ha narrato la Hollywood dell’arte e della bohème come nessuno. I suoi ritratti di rockstar come Jim Morrison e attori, artisti da leggenda come Andy Warhol, musicisti oziosi, surfisti e prostitute, i suoi bozzetti di ristorantini da due lire, case di lusso, alberghi da leggenda sono impagabili. Regalano, secondo molti suoi ammiratori, ciò che il jazzista Chet Baker ci ha donato con la sua musica: leggerezza, estasi, liricità, ma anche ritmo e sensualità. Forti contraddizioni, insomma, che erano la cifra identificativa di Eve Babitz e della sua Hollywood, città che come scriveva Oriana Fallaci «come tutti i luoghi nati dalla speculazione, alimentati dal troppo denaro e abitati da gente che ieri non aveva nulla e oggi ha tutto, è dunque la più strana tra le combinazioni di contrasti. Stupida e geniale, corrotta e puritana, divertente e noiosa, è il luogo dove Jack Lemmon manda un telegramma all'ex-moglie Cinthia, che sposa Clift Robertson, complimentandosi per il suo buon gusto e dove, tuttavia, una ragazza non può recarsi sola in un ristorante senza provocare indignazione grandissima».

Eve Babitz metterebbe la firma su questa definizione prima di imbucarsi all’ennesima festa o di abbandonarsi sulla spiaggia coinvolta in un viaggio lisergico o in un amore capace di riempire la notte, fino all’alba o poco di più.

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