I Romani sono stati dei grandi conquistatori. Hanno sottomesso popoli, sradicato culture e condotto guerre spesso spietate. Eppure, in nessun momento della loro storia l’appartenenza etnica e il colore della pelle sono stati motivo di discriminazione o di esclusione dai privilegi della cittadinanza, che vennero anzi estesi nel corso del tempo a tutti gli abitanti dell’impero. Oggi, invece, la cosiddetta cancel culture punta il dito contro di loro e sempre più spesso contro tutti gli antichi, accusandoli di complicità nei crimini perpetrati dall’Occidente: dal colonialismo all’emarginazione femminile fino alla supremazia dei “bianchi”.

Il risultato è che non mancano voci che chiedono la rimozione dei testi greci e latini dai programmi di scuole e università, dai cataloghi delle case editrici, dall’immaginario stesso delle nostre società. Una deriva pericolosa e inquietante come testimonia “Classici alla gogna” (Salerno editrice, 2023, euro 18, pp.136. Anche Ebook), l’ultimo libro di Mario Lentano, professore di Lingua e letteratura latina all’Università di Siena. Un volume che evidenzia come si stia correndo il rischio di eliminare uno degli interlocutori fondamentali della nostra tradizione culturale e di promuovere un nuovo conformismo, fondato sulla censura di qualsiasi opinione dissenziente. A Mario Lentano chiediamo però se ci sono margini per considerare i Greci oppure i Romani razzisti, ispiratori in qualche modo del colonialismo europeo? «L’imperialismo degli antichi è stato sicuramente un riferimento dei moderni colonialismi europei. Altra questione è quella del razzismo, almeno nell’accezione che questo termine ha assunto a partire dalla seconda metà dell’Ottocento. Greci e Romani hanno coltivato pregiudizi etnocentrici ed elaborato stereotipi negativi nei confronti dei popoli con i quali sono venuti a contatto – basti ricordare l’attitudine a definire “barbaro” chiunque non parlasse la lingua dei Greci –, ma non sono mai arrivati a elaborare l’idea che i membri di un determinato gruppo etnico dovessero essere discriminati, perseguitati o addirittura eliminati per la sola ragione di appartenere a quel gruppo».

Perché della storia e della cultura classica non possiamo fare a meno?

«Perché i Greci e i Romani non hanno mai smesso di far parte della nostra cultura: i loro libri sono stati letti da tutte le generazioni che ci hanno preceduto in questa parte di mondo e ne hanno modellato in profondità il pensiero e l’immaginario ben oltre la fine del mondo che li aveva prodotti. L’Eneide di Virgilio divenne un libro scolastico già all’indomani della morte del poeta e da allora non ha mai smesso di esserlo: un robusto filo rosso unisce dunque gli studenti che all’epoca di Augusto frequentavano la scuola del grammatico, dove si imparava a leggere i poeti, e i loro coetanei di oggi. Un filo rosso che sarebbe insano spezzare».

Quali rischi corriamo cedendo il passo alla cosiddetta cancel culture?

«La cancel culture nasce da due presupposti. In primo luogo, che il presente abbia un diritto di ultima parola e che sia legittimo respingere ciò che del passato non si adegua ai valori e ai modelli dell’oggi, o tutt’al più che lo si possa lasciar circolare dopo averlo opportunamente epurato di quanto può risultare disturbante al lettore moderno. In secondo luogo, l’idea che l’umanità sia composta in larga parte da individui emotivamente fragili e culturalmente disarmati, incapaci di pensare in modo autonomo e inclini a lasciarmi manipolare dai libri che leggono, dalle immagini che vedono, dai monumenti che campeggiano nelle loro città e così via. Sull’élite dei sani e dei capaci incombe dunque il compito di proteggere tutti gli altri per evitare che vengano a contatto con contenuti culturali dai quali non saprebbero difendersi da soli e che dunque è meglio rimuovere prima che esercitino i loro effetti distorsivi o perturbanti. Il rischio molto concreto che corriamo è dunque di dare corso a una nuova, capillare forma di censura, di elaborare un nuovo canone di sommersi e salvati non meno arbitrario di quelli che hanno vigoreggiato in altre epoche di oscurantismo culturale».

Da dove arriva il vento di censura e conformismo che caratterizza questi ultimi anni?

«Gli studiosi di comunicazione parlano di echo-chambers per indicare la tendenza, tipica dei social network, a creare gruppi chiusi e ideologicamente omogenei, nei quali si sente rimbalzare solo la propria opinione, mentre le posizioni divergenti tendono a essere marginalizzate o senz’altro escluse. Nel caso della cancel culture, è come se l’effetto echo-chamber si fosse esteso a un’intera cultura, che sembra incapace di stabilire un dialogo con quella particolare terra straniera che è il passato, in quanto altro e diverso dal presente. Un rifiuto dell’alterità e della differenza che risulta paradossale, da parte di uno schieramento che si pretende portatore di istanze egualitarie e inclusive».

In che modo ci si oppone alla cancel culture?

«Anzitutto denunciandone i presupposti e gli effetti. In secondo luogo, promuovendo a partire dalla scuola un contatto più maturo e consapevole con il passato, che va certo considerato criticamente e del quale va rifiutato con forza ogni uso strumentale a fini di legittimazione del presente nei suoi aspetti più discutibili, ma che anzitutto va conosciuto e preservato per le generazioni a venire».

La copertina
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