Ognuno di noi ha in mente la propria cotoletta ideale. Attenzione, però: non ne esiste una sola. C’è chi la vuole con l’osso e chi la preferisce sottile e croccante, chi la chiama Schnitzel e chi tonkatsu.

Nel saggio Storia mondiale della cotoletta (Il Saggiatore, 2025, pp. 312, anche e-book), lo storico della gastronomia Luca Cesari descrive non a caso un pellegrinaggio sorprendente nel cuore delle nostre tradizioni alimentari, tra mitologie locali e contaminazioni globali, che ci mostra quanti universi si nascondano sotto a una semplice crosta di panatura. Perché, diciamolo: la cotoletta impanata negli ultimi decenni è diventata di moda e soggetta quindi ai gusti momentanei. Facile trovarla guarnita di pomodorini e rucola o ancora ricoperta di formaggio. Per i puristi, però, non è accettabile neppure la carne sia battuta fino a creare la modaiola orecchia d’elefante e c’è anche chi contesta l’uso del limone che sicuramente ha ben poco a che spartire con i “bei tempi andati”, quando gli agrumi erano un lusso per pochi. Insomma, una bella “confusione” per un piatto considerato un simbolo della gastronomia locale, prodotto “tipico” conteso tra Austria e Lombardia e rivendicato da entrambe con orgoglio.

Ma basta l’orgoglio, oppure quelche barlume di verità c’è in queste rivendicazioni?

La copertina del libro
La copertina del libro
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Allora, Milano si attesta con forza (e con qualche ragione) la paternità della cotoletta impanata, almeno per quanto riguarda l’Italia. L’illuminista del Settecento Pietro Verri, nel suo volume Storia di Milano, parla di un episodio avvenuto il 17 settembre 1134 nella basilica meneghina di Sant’Ambrogio. In quel giorno si celebrava la ricorrenza di San Satiro, santo di rilievo nel Medioevo, e nella basilica venne imbandito un banchetto in cui era incluso un piatto denominato lombolos cum panitio, cioè una fetta di carne con impanatura. Secondo gli esperti di cucina è probabile che più della nostra cotoletta si trattasse di scaloppina. È però accertato che già in epoca medievale si usasse spesso la panatura per la carne. Si deve, infatti, pensare che nelle famiglie nobili era diffusa l’usanza di ricoprire i cibi con polvere d’oro. I poveri invece ottenevano la doratura mescolando pane grattugiato, tuorlo d’uovo e friggendo il tutto in burro. La prima citazione della cotoletta in un ricettario lombardo è invece molto più tarda. Si trova nel dizionario milanese-italiano dato alle stampe nel 1814 da Francesco Cherubini.

Sempre a metà Ottocento, nel periodo in cui la Lombardia voleva diventare indipendente dall’Impero austriaco, si accese la disfida tra la cotoletta alla milanese e l’omologa viennese, la Wiener Schnitzel. Per sostenere la primogenitura italica si diffuse un racconto, probabilmente partigiano, su una lettera scritta dal conte Attems, aiutante di campo dell’imperatore d’Austria Francesco Giuseppe. Dopo una cena nella residenza milanese del famoso generale Radetsky, Attems magnificò per iscritto uno straordinario piatto “a base di vitello impanato nell’uovo e fritto nel burro”. Le lodi sarebbero giunte all’orecchio dell’imperatore, spingendolo a importare la delizia alla corte viennese. Leggende, naturalmente, dato che piatti simili alla Wiener Schnitzel sono citati in ricettari austriaci del Settecento. Inoltre, Milanese e Viennese sono molto diverse. La prima prevede l’uso del vitello, è spessa e con l’osso e viene fritta nel burro. La seconda è sempre sottile, è di maiale e veniva originariamente cotta nello strutto. Insomma, la contesa tra Lombardia e Austria sulla bistecca impanata potrebbe durare all’infinito e allargarsi anche ad altri Paesi dato che già nella Francia del Settecento si usavano le costine panate che vennero introdotte in Italia agli inizi dell’Ottocento. Venivano denominate “costolette della Rivoluzione francese” e secondo alcuni esperti vennero importate da cuochi al seguito degli eserciti napoleonici oppure da Maria Luisa d’Austria, moglie di Napoleone e poi duchessa di Parma. In realtà queste “costolette” transalpine venivano marinate nel burro fuso mescolato con erbe, sale, pepe e chiodi di garofano e poi passate nella farina, nell’uovo sbattuto prima di essere fritte. Erano quindi solo lontane parenti della classica Milanese.

Alla fine, attorno alla cotoletta si muove un universo di tradizioni, storie, abitudini e gusti. Sfogliando ricettari impolverati e curiosando tra i dettagli di banchetti religiosi dimenticati, analizzando verbali di processi antichi e sbirciando nelle cucine domestiche di epoche passate, Cesari ci svela una verità sorprendente: ciò che crediamo scritto sulla pietra non è mai stato tale, le certezze indiscutibili sul cibo e l’identità sono quasi sempre leggende costruite a fini propagandistici, e una fetta di carne impanata e fritta può farci scoprire la storia dell’Europa; e, di riflesso, del mondo intero. La cotoletta ha quindi tante patrie quante varianti, definendosi grazie a continue contaminazioni e trasformazioni e si può arrivare a poche certezze: piace a tutti o quasi e ha ispirato a Gualtiero Marchesi una semplice ammissione: «Amo moltissimo la costoletta, ma avrei voluto inventarla io».

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