Parma, 1248. Federico II di Svevia subisce una delle peggiori sconfitte della sua vita. I comuni italiani, coalizzati da papa Innocenzo IV, nemico giurato dell’imperatore, hanno trionfato e il sogno di riunire tutta la Penisola sotto il potere imperiale sembra oramai tramontato per sempre. L’unica speranza per l’imperatore è risposta in un potente segreto che fortunosamente è sopravvissuto alla devastazione che le truppe comunali hanno perpetrato nell’accampamento di Federico II. Questa speranza verrà raccolta pochi anni dopo da Manfredi, figlio prediletto dell’imperatore. Toccherà a lui dismettere i panni di semplice falconiere, per imbracciare la spada e lo scudo contro i nemici della sua famiglia. Toccherà a Manfredi, per un gioco del destino, cingere la corona del regno dell’Italia meridionale, lo Stato più avanzato e cosmopolita che il Medioevo abbia conosciuto.

Questa la cornice in cui si muovono le vicende raccontate nel romanzo “La spada di Manfredi” (Marlin editore, 2022, pp. 336) scritto da Francesco Nobile. Un romanzo che prende le mosse da un misterioso cavaliere che bussa alla porta di Dante Alighieri, con una storia da raccontare: sarà il sommo poeta a cogliere il segreto più profondo della dinastia di Federico II e Manfredi e a farsene carico con la sua opera immortale.

A Francesco Nobile chiediamo da dove nasce la scelta di dedicare un romanzo storico alla figura di Manfredi:

“È una figura che mi ha sempre affascinato. Un uomo dai molti talenti e dalle svariate passioni: falconiere, poeta, mecenate e cavaliere, sommava in sé virtù cortesi e militari. Scoperto tra i banchi di scuola grazie alle parole di Dante - ai versi biondo era e bello e di gentile aspetto che lo dipingono con pennellate bellissime nel Purgatorio - colpì la mia immaginazione in maniera vivida. Poi, a mano a mano che studiavo la sua vita, fino a farne la mia tesi di laurea, decisi che c'era una storia da raccontare che andava al di là della semplice cronaca”.

Perché Manfredi e prima di lui Federico II furono tanto importanti per l'Italia del sud?

“Perché erano portatori di una cultura innovativa, rispetto ai loro tempi. In un certo senso erano dei precursori. Il meridione d'Italia era una sintesi di diversi popoli che vivevano sotto l'ala della grande aquila imperiale. C'erano comunità ebraiche, ortodosse ed enclave musulmane che vivevano fianco a fianco, nel regno unificato dai Normanni e poi passato agli Svevi. Il Sud era una realtà politica unitaria e accentratrice in un'Italia ancora profondamente divisa, sia in termini ideologici, sia territoriali, e gli Svevi miravano a estendere la propria autorità anche a nord, nell'Italia dei Comuni.

Volevano fare una sorta di un’unità d’Italia?

“C'erano le precondizioni per la costituzione di un'unità nazionale che sarebbe arrivata in anticipo rispetto a quella degli altri Stati europei. Invece la Storia andò da tutt'altra parte: francesi e spagnoli, ad esempio, colsero la modernità prima di noi mentre l'idea di uno Stato italiano slittò in avanti di secoli. Si trattò di una grande occasione persa, dal mio punto di vista, soprattutto per il Sud che avrebbe rimarcato una sua centralità e rivendicato un destino, forse, più mediterraneo per la nostra bella Penisola. Ma, al di là delle possibilità inespresse, molto è rimasto di quell'epoca. La prima università laica di tipo statale in tutta Europa è a Napoli. In Sicilia nacque la prima produzione lirica in volgare e sorse e una rete di castelli che ancora oggi impreziosisce e dona bellezza al nostro territorio”.

Cosa significò per il Meridione d'Italia la sconfitta degli Svevi?

“Oggi diremmo che si trattò di un vero e proprio cambio di paradigma. Saltò completamente la rete di alleanze internazionali: gli Svevi erano a capo dei ghibellini d'Italia, mentre la casa regnante che subentrò, gli angioini, era fedeli guelfi, legati al papa. Uno dei contrasti più feroci che Federico II e Manfredi hanno dovuto sostenere è sicuramente quello con il papato, un contrasto che, alla lunga, è costato alla dinastia sveva il trono. I francesi, invece, opereranno in maniera molto più conforme alle volontà pontificie e alle loro necessità, di fatto agendo, in alcuni momenti, come mano armata della politica estera dei papi. Infine, su altri versanti, le dinastie successive agli Svevi saranno molto meno tolleranti nei confronti delle differenti realtà che popolavano il Regno di Sicilia”.

Perché ha introdotto la figura di Dante nel romanzo?

“L'incontro del sommo poeta con un misterioso cavaliere fa da cornice letteraria agli eventi. Ho inserito Dante nel romanzo sia perché arricchisce la narrazione, sia perché dà un contributo forte al significato ultimo della storia che volevo raccontare. Anzi, in un certo senso è il personaggio che più di ogni altro incarna la morale finale del libro”.

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