A 90 anni dal Nobel e a 80 dalla morte avvenuta a Roma, una splendida biografia scritta dalla saggista sassarese Rossana Dedola, "Grazia Deledda - I luoghi gli amori le opere" (Avagliano 396 pagine, € 22), riproietta in un significativo ambito critico la vita e l'opera della scrittrice nuorese.

Pezzo forte del lavoro della Dedola - ricercatrice alla Scuola Normale Superiore di Pisa, analista didatta, supervisore e docente all'International School of Analythical Psychology di Zurigo e all'Istituto C.G. Jung - il ritrovamento di 86 lettere inedite della Deledda, attraverso le quali ha tracciato un percorso più dettagliato della donna e della scrittrice.

La studiosa Rossana Dedola
La studiosa Rossana Dedola
La studiosa Rossana Dedola

Dove le ha trovate?

«Nel Goethe und Schiller Archiv di Weimar, nella Oestrerreichische National Bibliothek di Vienna, una è in inglese, e nella Zentralbibliothek di Zurigo. Si tratta di corrispondenti stranieri che dimostrano il grande interesse nei confronti di Grazia Deledda che si diffuse all'inizio del Novecento in Europa. Quelle ritrovate a Weimar erano indirizzate a Justine Rodenberg, moglie di Julius Rodenberg, il direttore della Deutsche Rundschau, la più importante rivista in lingua tedesca del tempo. Altro corrispondente lo svizzero Jakob Job, direttore della Radio di Zurigo, e la baronessa Christine von Hoinigen-Heune, una delle prime storiche e la prima ad aver conseguito un dottorato a Zurigo. A lei, esperta di cattolicesimo, Grazia spiega le vicende di alcuni suoi romanzi».

Quali sono gli elementi di novità che ha ritrovato in queste lettere rispetto a quanto già si sapeva della Deledda?

«Sono parecchi. Intanto ora sappiamo che pensava al Premio Nobel sin dal 1912, quando non aveva ancora finito di scrivere “Canne al vento”, uscito nel 1913. Chiese infatti a Julius e Justine Rodenberg di appoggiarla nella candidatura. Questo dimostra quanta volontà e coraggio ci volessero per puntare con tanto anticipo e lungimiranza sul massimo riconoscimento mondiale. Attraverso le lettere informava via via l'amica berlinese dei progressi che faceva nella composizione dei romanzi che stava scrivendo».

Perché lei avvicina la Deledda a Svevo e a Pirandello più che a Verga e a Capuana, come fecero parecchi critici?

«L'ho voluto sottolineare sin dall'introduzione: i critici non le avevano fatto un bel regalo retrocedendola al verismo e considerandola come una scrittrice regionale, e per tanti anni ha prevalso così l'idea che la sua narrativa andasse collocata nell'Ottocento. Invece era pienamente proiettata nel Novecento e oltretutto era più giovane di Pirandello di quattro anni. Svevo e Tozzi, che poi diventò suo amico anche se era molto più giovane di lei, si soffermarono, come si sa, sulla figura dell'inetto, ma anche Grazia Deledda mostrò nel bellissimo “La via del male”, uscito nel 1892, l'anno in cui Svevo pubblicò “Senilità”, la debolezza del protagonista maschile, come succederà anche con “Elias Portolu”. Proprio in quell'anno Grazia Deledda cominciò una breve corrispondenza con il giornalista triestino Giulio Cesari che nel suo romanzo “Vigliaccherie femminili”, prontamente recensito da Grazia, mette in scena anche il suo amico Italo Svevo. In quegli anni giovanili in cui i sogni di gloria la spingevano molto in alto, e i sogni d'amore pur di fuggire da Nuoro le facevano adocchiare possibili fidanzati, Grazia aveva pensato anche a Cesari come a un marito».

Perché tanta acredine nei confronti della Deledda da parte di Luigi Pirandello?

«È singolare, ma dopo essersi frequentati nei primi anni della vita romana di Grazia, e pur vivendo non molto distanti, poi non si incontrarono più. Il motivo è la pubblicazione da parte di Pirandello del romanzo “Suo marito”, che gli era stato ispirato da Palmiro Madesani. Scrivendo di Palmiro al giornalista Ugo Ojetti, lo aveva definito un capolavoro e lo chiamava Grazio Deleddo. Ci troviamo di fronte a un esempio perfetto di misoginia. Pirandello non riusciva ad accettare che un uomo si dedicasse a favorire la carriera letteraria della moglie. Erano anni in cui esisteva ancora l'autorità maritale, che toglieva qualsiasi diritto alla moglie e che fu abolita solo nel 1919. In Sardegna però le donne tradizionalmente avevano alcuni diritti, potevano ereditare direttamente dalla madre e il codice tradizionale sardo accettava la separazione dei beni all'interno del matrimonio».

Francesco Mannoni

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