Viviamo in un’epoca di riscrittura, addirittura cancellazione di eventi e fenomeni della storia. Così, negli ultimi anni, abbiamo assistito a prese di posizione e dichiarazioni epocali con capi di governo che si scusano in nome del proprio Paese per torti e omissioni, per il ruolo svolto dai loro Stati in vicende scabrose e terribili più o meno lontane.

Il passato viene quindi sottoposto sempre più spesso a un vero e proprio processo in cui le tesi, anche quelle più largamente accettate, vengono dibattute come in un’aula di tribunale.

Nel suo ultimo lavoro, "Il tribunale della storia” (Rizzoli, 2021, pp. 380, anche e-book) Paolo Mieli riesce, con la brillantezza del grande divulgatore e l’acume dell’attento osservatore dei nostri giorni, a spiegare in cosa consista l’applicazione di un metodo “giudiziario” per una rivisitazione dei fatti e delle figure della storia. Lo fa ripercorrendo il passato da Fidel Castro a Mussolini, passando per Vittorio Emanuele III, Filippo V e perfino Gesù di Nazareth e partendo da due assunti fondamentali: per prima cosa, il vero processo, necessario e prezioso, è quello contro ogni tipo di falsificazione; seconda cosa, non possono esistere verità assolute, immutabili perché il tribunale della storia, nell’era dell’informazione diffusa, è sempre riunito per emettere nuove sentenze.

A confermacelo è proprio Paolo Mieli:

“Il titolo del libro è volutamente provocatorio e sottintende un ragionamento importante se si vuol fare storia in modo corretto. Per prima cosa la ricerca storica dovrebbe svolgersi come un processo, una sorta di processo di appello. Solitamente vi è una verità consegnata dalle prime ricostruzioni. In seguito, compito dello storico è controllare che la prima sentenza emessa dal tribunale della storia sia stata appropriata. Bisogna capire, per esempio, se il primo giudizio non sia stato il frutto del punto di vista dei vincitori e schiacci totalmente i vinti. Di processi di appello poi ce ne potranno essere tanti, ma il primo è fondamentale perché deve rimettere le cose a posto partendo da tre presupposti”.

Quali presupposti?

“Il primo è l'esame di ulteriori carte, di ulteriori documenti rispetto al primo pronunciamento storico. Il secondo presupposto – che dovrebbe essere chiaro a chiunque si occupi di storia – è che la ragioni non può stare da un'unica parte:  non esiste un buono tutto buono, non esiste un cattivo tutto cattivo. Ultimo presupposto: uno storico che conferma al mille per mille il punto di vista dei suoi predecessori o che fa propria la tesi originaria è uno studioso che probabilmente non ha voluto vedere alcuni elementi. Non ha fatto bene il proprio lavoro perché sempre ci sono sempre dei cambiamenti ed esaminare con occhio attento anche quelli che sembrano aspetti secondari può portare a smuovere il quadro d'insieme, può portare a novità inattese. Questo è il modo di procedere dello storico, un modo di procedere tipico di un processo in cui c'è un'accusa, c'è una difesa, ci sono prove che vengono confutate, controllate, vagliate”.

Perché l’espressione “tribunale della storia” va intesa in senso provocatorio?

“L'espressione tribunale della storia viene usata in maniera quasi ironica perché ogni storico che si rispetti deve sapere che la sua sentenza non potrà mai essere considerata definitiva. Ci sarà sempre un nuovo processo, un nuovo studioso che pronuncia una nuova sentenza. È un processo continuo e infinito ed è in fondo il bello della storia”.

Non si arriva mai, allora, a una verità?

“Qualunque storico sa che non esistono verità assolute. Se io scrivo di storia per dimostrare che la mia parte aveva ragione, che alcuni erano dalla parte del bene e gli altri dalla parte del male, posso anche avere grande successo, posso anche scrivere un libro importante ma non sto facendo il mestiere dello storico. Dal punto di vista storico il mio lavoro è destinato a non lasciare traccia perché sono una sorta di agitatore politico che sostiene la propria idea. Un agitatore politico ben dissimulato, ma non uno storico. Se invece sono capace di ribaltare un giudizio, allora sto lavorando da studioso serio di storia: tengo aperta una via che poi altri seguiranno dopo di me oppure che prenderanno per poi seguire vie alternative a loro volta”.

Da dove nasce questa sua concezione nello studio della storia?

“Il mio metodo è stato molto influenzato dai due maestri che sono stati relatori del mio lavoro di tesi: Renzo De Felice e Rosario Romeo. Il primo, con il metodo descritto in precedenza, studiò la figura di Mussolini, il secondo quella di Cavour. Occuparmi di storia è per me pagare un debito nei confronti di questi due maestri, un’esigenza che è cresciuta nel corso degli anni, mentre mi dedicavo al giornalismo. De Felice e Romeo hanno plasmato il mio modo di essere intellettuale e di studiare il passato”.

Questo metodo appreso da De Felice e Romeo ha influenzato anche il suo modo di fare giornalismo?

“Certamente: di fronte a una vicenda mi sono sempre chiesto se ciò che mi veniva raccontato era la verità, se quelli che passavano per buoni lo erano veramente e se la ragione stesse tutta da una sola parte. In fondo da giornalista mi comportavo da storico: da storico del presente”.

La copertina del libro
La copertina del libro
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