Provo sempre un certo disagio quando mi ritrovo ad affrontare, su differenti piani di indagine, le questioni inerenti il cosiddetto “fine vita”: non fosse altro che per la intimità che accompagna la sfera decisionale e motivazionale dell’intervento umano su una vicenda biologica aprioristicamente sottratta, quando per convinzione religiosa, quando per mera accidentalità, alla determinazione individuale di ciascuno di noi. Eppure la questione si è posta, e tutt’oggi si pone, con la forza imperante della sua doverosità solutoria: “a Cesare quel che è di Cesare, a Dio quel che è di Dio”, si sarebbe indotti ad esclamare, ma non sempre il confine è netto e/o universalmente condivisibile.

Se, allora, Montecitorio, stando a quanto si è appreso dalla stampa maggiormente accreditata, ha accolto con buona propensione l’intrapreso avvio dei lavori, tuttavia, il dibattito sul provvedimento, preventivamente mutilato attraverso l’introduzione, in Commissione, della “obiezione di coscienza”, non è riuscito a sortire esito alcuno per la diserzione, apparentemente occasionale, dei membri del Parlamento. Non me ne stupisco: affrontare oggi, in piena paralisi deterministica, un tema così delicato, avrebbe comportato la sottrazione di tempo utile alla definizione delle “sciagurate” riforme (considerate nei loro esiti) poste in campo dal Governo dei Migliori (rectius: dei “Matusalemme”) per volere della Unione Europea. Aggiungo, peraltro, che l’assenza, comunque intesa, è anch’essa un segnale: di convenienza, di opportunità, di moralismo spicciolo e superficiale. Non è certamente facile indicare soluzioni utili a frenare il declino di un Parlamento siccome siffatte soluzioni, purtroppo, dovrebbero arrivare dalle stesse forze politiche che lo hanno provocato. E’ sempre la solita storia del cane che si morde la coda: meno si interpella il dinamismo è  parlamentare tanto più questo si incancrenisce smettendo di funzionare. Un segnale, peraltro, di stampo marcatamente progressista, andava comunque dato anche solo per assicurare la sopravvivenza dell’impianto originario di un Partito, quello Democratico, che stranamente, si è ritrovato a galleggiare, quasi inerte, su dinamiche politiche esterne decise su differenti piani di intervento. Ma il non decidere è sempre meglio, probabilmente, del decidere anche di sbagliare sia pure nel perseguimento di un intendimento pregevole. Chi non fa, non sbaglia: si dice. Ed intanto restano irrisolte le grandi questioni sociali del nostro tempo, così, nell’indifferenza generale.

Ebbene: anche a voler trascurare il profilo politico dell’intervento normativo in esame, di fatto, stando alle puntuali indicazioni della Corte Costituzionale, sarebbero sufficienti poche e sparute condizioni per accedere alla “prestazione” di “suicidio assistito”: intanto, che il soggetto interessato, sia in grado di intendere e di volere; quindi, che sia affetto da una patologia irreversibile; poi, che patisca gravose sofferenze fisiche o psichiche; ed infine, che la sua sopravvivenza sia direttamente riconducibile alla presenza di presidi vitali. E sebbene appaia piuttosto agile prevederne le condizioni, tuttavia, altrettanto agile non sembra poter essere la loro preventiva disamina utile alla potenziale decisione sull’ammissibilità dell’intervento. Ma, a monte, si tratta pur sempre di fare i conti con la ineludibile necessità di colmare, se davvero così è, un vuoto normativo che finora avrebbe impedito al nostro Paese di allinearsi a tanti altri maggiormente avveduti sullo specifico problema.

Ma riflettiamoci: è davvero necessaria l’elaborazione di una legge ad hoc sullo specifico profilo, oppure l’impianto normativo esistente, attraverso l’elaborazione sistematica dell’articolo 32 della Costituzione, considerato nel suo momento estensivo, è idoneo, di per sé stesso, a definire la questione sul “quando” morire? Perché non fare compiuta ed autorevole applicazione del sacrosanto “diritto di autodeterminazione” individuale garantito non solo dal richiamato articolo 32, secondo comma, ma anche dai comuni principi di etica medica? Perché complicare l’impianto normativo con la elaborazione di una normativa ultronea che, nel suo momento applicativo si troverebbe a cozzare con la norma costituzionale di riferimento? A voler dettagliatamente normare ogni specifico settore dell’esistente non si corre il rischio di vivisezionare all’infinito l’esplicarsi di concetti basilari già opportunamente definiti sul piano generale per essere rivolti alla generalità dei consociati?

Intendiamoci, tanto per tornare al proverbiale assunto iniziale sulla ripartizione delle competenze tra “Cesare” e “Dio”: la libertà di scelta deve prevalere sempre e comunque (“libero arbitrio”), sia per il paziente destinatario dell’eventuale intervento, sia per il sanitario chiamato ad eseguirlo. Il Caso “Englaro” è pilota nella specifica materia: “deve escludersi” – osservava la Cassazione nell’occasione - “che il diritto di autodeterminazione terapeutica del paziente” possa incontrare “un limite allorchè da esso consegua il sacrificio del bene della vita”. E allora, è davvero necessario aggiungere altro complicando un sistema normativo già compiutamente articolato? Ne dubito, sia pure cautamente. Taluni principi appaiono infatti in tutta la loro incontrovertibilità siccome esiste un diritto a morire già consacrato dalla Corte di Strasburgo la quale, con buona pace del tardivo interprete italiano, ha già da tempo enunciato la sussistenza del diritto di decidere il “come” ed il “quando” dell’evento letale: “non vivere bonum est, sed bene vivere”. Dobbiamo davvero aggiungere altro?

Giuseppina Di Salvatore

(Avvocato – Nuoro)

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