«Alexa, fammi sentire la canzone al primo posto della hit parade», ordiniamo mentre siamo coricati sul letto. E che meraviglia: in pochi secondi, dall'altoparlante arrivano le note. E se non siamo fan di Amazon, c'è sempre la Docking Station della casa di Mountain View: «Ok Google, imposta timer dodici minuti».

Ma si può dire anche «Hey, Google», e l'apparato si metterà in ascolto sapendo che il suo padrone sta per dare un ordine. Quando si attiverà la suoneria, sapremo che è il momento di scolare la pasta, dopo aver ingannato l'attesa chiedendo quanti anni ha Uma Thurman o quando scade il mandato di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti d'America (le persone che attendono quella data lo fanno con ansia sempre maggiore, ma questa è un'altra storia). Noi parliamo. Loro - i dispositivi Apple o Google - ci rispondono: tutto a voce. Se quei dispositivi non li abbiamo, possiamo fare in modo che - a parlare e ad ascoltare - sia lo smartphone dotato delle applicazioni che fanno funzionare Alexa o l'omologo di Google. E le nostre domande avranno una risposta identica, ma riprodotta dall'altoparlante o dalle cuffie dello smartphone.

Tutto molto tecnologicamente avanzato, oltre che comodo, finché un bel (bello davvero?) giorno i dispositivi ti rispondono anche quando non li chiami, e si mettono in ascolto. E considerato che non si cercava la loro attenzione, la funzione di ascolto si traduce immediatamente in un "ficcanasare".

Per l'apparato di Mountain View c'è chi ha fatto una serie di esperimenti, ma in inglese. L'apparato si è attivato, quindi si è posto ufficialmente in ascolto, non quando nella stanza qualcuno ha detto «Ok Google» oppure «Hey Google»: già, perché la frase che l'ha acceso è stata, qualche volta, «Ok Hugo», e fin qui ci può anche stare. Pero l'apparato si aziona anche con frasi dal suono assai diverso: «Ok boo boo», «Ok frugal» e «Ok dougal». Il che non preoccuperà molto i clienti non anglofoni, quindi anche gli italiani, ma attenzione: ci sono frasi in italiano che accendono quei dispositivi, ma nessuno le sa perché non è mai stato fatto un test sulla nostra lingua. I risultati in inglese provengono invece da una ricerca della Northeastern University e dell'Imperial College di Londra.

Che ogni tanto i fischi diventino fiaschi, però, lo sa bene chi ha un dispositivo Google, perché ogni tanto capita di parlare in italiano con il coniuge senza pronunciare la formula per attivarlo, e sentire la voce che viene dall'altoparlante: «Mi dispiace, non ho capito». Il fatto è che non doveva capire lui. Doveva farlo il coniuge. E in caso di identità di risultati, potrebbe iniziare un pesante periodo di depressione.

Ora che c'è il Covid-19 con la sua terrificante pandemia, lo Stato ci chiede (non lo impone) di scaricare un'App per cellulari che traccia i nostri movimenti. Se ne parla ovunque: si chiama "Immuni" - visto che localizza il proprietario del telefono e memorizza dov'era giorno per giorno minuto per minuto, in Sardegna è stata scherzosamente ribattezzata "Inguni" - e promette la totale riservatezza dei dati, che poi distruggerà.

Serve per far dialogare i cellulari: se incrocio qualcuno che ha rivelato al suo "Immuni" di essere positivo al virus, o di esserlo stato, l'App avverte tutte le persone che quella persona ha incontrato. Non rivela dove e quando, rendendo difficile l'identificazione del presunto contagioso, ma avverte chi è entrato in contatto con lui - a patto che abbia installato anch'egli "Immuni" - che è il caso di sottoporsi al tampone.

Tutto utilissimo, se non fosse che l'app è privata, potrebbe rivelare ai produttori e allo Stato ogni nostro spostamento e quindi violare la nostra privacy. Certo, Stato e produttori giurano che non lo fa, ma come fidarsi? Lo pensano in molti, ed è proprio per questo che l'installazione dell'app è su base volontaria, il che non ha molto senso: "Immuni" può essere utile solo se tutti ce l'hanno, per fare controlli mirati su chi si è senz'altro esposto al rischio di contagio. Se la installa anche solo metà della popolazione, le buone intenzioni crollano sulle mancate adesioni.

Sui social network, ma anche sui mezzi d'informazione, infuria la polemica su "Immuni": assenteisti, coniugati con amante, ladri, rapinatori e tante altre categorie di persone non vogliono che qualcuno sappia dove erano e quando erano lì. Oppure non erano laddove sarebbero dovuti essere, tra cui le persone agli arresti domiciliari che si concedono "vacanze". "Immuni" lo sa, quindi non la installano. Il problema è che la nostra vita funziona già così da molti anni, con o senza smartphone, ma quasi nessuno se ne rende conto. Insomma, c'è un sacco di gente che si fa gli affari nostri. Il fatto è che, quando ci muoviamo con lo smartphone, molti lo sanno in diretta. Qualche esempio? Lo sa la nostra compagnia telefonica, sulla base del ripetitore che il nostro telefonino "aggancia" minuto dopo minuto e del ricevitore gps satellitare: loro sanno dov'è il nostro smartphone, quindi dove siamo noi. E, chissà, forse lo sa anche il produttore del telefonino. Inoltre, se andiamo a controllare i permessi di privacy, una grande quantità di applicazioni che abbiamo nello smartphone registrano - e comunicano - la posizione del telefono alle ditte di software che quelle app hanno scritto. Compresi i navigatori gps. Se si usa un navigatore da automobile, non dotato di scheda sim, lui riceve il segnale dai satelliti, triangola, capisce dove si trova e riproduce il punto su una mappa che è già in memoria. Quindi, nessuno sa dove si trovi il navigatore, e il suo padrone, perché il navigatore riceve e non trasmette.

Se la stessa cosa lo si fa con uno smartphone, ad esempio si utilizza Google Maps su un Iphone, la nostra posizione sarà nota a compagnia telefonica, Apple e Google in un colpo solo. Altro che "Immuni", insomma.

Ancor peggio le carte di credito. Se paghiamo con quelle, nulla sfugge: dove siamo e cosa compriamo. Il che è solo fastidioso se altri sanno quale camicia abbiamo comprato e dove, molto imbarazzante se, con quella carta, abbiamo acquistato frustini e altre amenità in un sex shop, dove pagare in contanti sarebbe più riservato.

E poi, che senso ha fare battaglie sulla nostra privacy, se poi comunichiamo indirizzi, caselle mail, numeri di cellulare e composizioni di nuclei familiari a tutte le aziende o negozi che ci offrono una carta fedeltà? Quei dati saranno venduti per profilazioni mirate alla pubblicità, nei casi migliori saranno noti a ogni singola azienda che ci chiede la card: dal fast food agli elettrodomestici, alle catene di marchi internazionali. Glieli diamo noi, nessuno ce li ruba. E quando entriamo su un social network e vediamo che ci propone, insistentemente, tra i vari post uno su un prodotto che abbiamo cercato di recente su un web market (Amazon, Ebay eccetera), possiamo fare due cose: chiederci come fa a sapere che ho cercato proprio quel prodotto e proprio di quella marca. Oppure rendersi conto che, tutte queste tracce, sommate raccontano ogni cosa di noi e che bisogna diffonderle il meno possibile.

Di "Immuni", insomma, possono preoccuparsi solo gli immuni: purché lo siano alle tessere sconto, all'informatica e a Internet.

Come a dire: citofonare Neanderthal.
© Riproduzione riservata