“Proust fu farfalla, prima che crisalide. Poi lentamente si avvolse nel suo bozzolo e scomparve, lasciando dietro di sé i lunghi filamenti della sua scrittura. Coloro che lo conobbero furono ingannati dalla sua compiutezza mondana. Da parte sua egli, per scriverne, dovette lentamente disimparare quello che così perfettamente aveva appreso, allontanandosene e accartocciandosi su sé stesso, sino a sparire…”. In queste poche righe tratte dal volume “Marcel Proust” (Bompiani, 2022, pp. 272, anche e-book) Giuseppe Scaraffia ci aiuta a intravedere l’essenza di uno dei geni letterari del primo Novecento. Una essenza complessa, sfuggente, grande e fragile allo stesso tempo e che Scaraffia indaga con la passione e la saggezza di chi ha dedicato buona parte dei suoi studi all’opera proustiana per eccellenza, la Recherche. Ne è nato un saggio che disegna un ritratto dell’autore francese capace di rompere molte categorie di genere. Non semplicemente una biografia, né tantomeno un testo di pura invenzione letteraria, ma un libro che supera ogni confine diventando esso stesso una ricerca.

A Giuseppe Scaraffia, docente di Letteratura francese alla Sapienza di Roma, chiediamo di spiegarci cosa intende dire quando afferma che “Proust fu farfalla, prima che crisalide”?

“Proust a lungo si illuse o cercò di illudersi di potere vivere come gli altri. Basta pensare all’episodio in cui, nell’adolescenza, Marcel, per farsi bello davanti a un amico, non esitò a chiedere a una bella fioraia di andare a letto con lui. Ovviamente con nessun risultato. Poi cercò di entrare nel gruppo degli aristocratici, di coloro che, per nascita, si sentivano superiori agli altri come lui per il suo genio, sentito confusamente come una presenza ancora tutta da dimostrare. Fu la malattia a strapparlo a questo deludente sforzo, chiudendolo nella sua stanza e consegnandolo all’opera che aspettava impaziente".

La copertina del libro
La copertina del libro
La copertina del libro

Una volta abbandonate le vesti di farfalla, chi divenne Marcel Proust?

“Proust si chiuse in sé stesso per aprirsi al mondo della memoria. Lavorava di notte e riposava di giorno. Caricò fino all’orlo l’arca di Noè della Ricerca del tempo perduto. Quell’operazione, un misto di folgorazioni e di pazienza, di volontà e di abbandono, lo isolò lentamente dalla vita mondana. Cominciò ad uscire sempre più di rado e le sue uscite, potremmo definirle militarmente ‘sortite’, divennero sempre più delle rapide scorrerie in cui strappava al presente delle chiavi per capire il passato, il tempo perduto. Ormai non cercava più di inserirsi nel presente. Quando usciva indossava, sotto il soprabito o il cappotto foderato di visone col bavero di lontra nera, abiti da sera tagliati secondo la moda della sua giovinezza, conservandone anche gli alti colletti inamidati. Snello e agile, nonostante la lunga degenza, camminava eretto, con la testa lievemente inclinata da un lato”.


Perché il rapporto con la madre fu tanto importante per Proust?

“La madre fu la prima e a lungo l’unica a intuire la genialità nascosta sotto il groviglio di nevrosi che rendeva così difficile la vita del figlio. Era così importante che alla sua morte Proust, travolto dal dolore del lutto, dovette chiudersi in una clinica per superare quel frangente. Ma al tempo stesso la sua scomparsa dette a Proust la forza di cominciare a scrivere senza temere di urtare la sua suscettibilità”.


Che ruolo ebbe la malattia nella vita di Proust?

“Come un guardiano invisibile ma attento, la malattia lo riconduceva alla scrittura ogni volta che era tentato di evadere, di perdersi nella vita esteriore. L’asma inoltre era una perenne ambasciatrice della morte, gli ricordava che non doveva perdere tempo se voleva salvare il ‘tempo perduto’. Infatti, ha scritto: ‘La natura in caso di bisogno inventa nevrosi protettrici e infortuni tutelari perché il dono necessario dell’artista non debba restare inoperoso’”.


Perché ebbe tanta ansia di far scomparire la propria corrispondenza?

“L’immensa corrispondenza proustiana, ora accessibile in ventuno volumi editi da Plon, a cura del paziente Philip Kolb, è straordinariamente varia. Colpisce la pioggia di messaggi con cui dalla sua prigione volontaria Proust cerca di seguire la vita degli amici impegnato nella giostra della mondanità. Le lodi di cui colmava una serie di scrittori inesistenti. Ma c’erano anche, ampiamente visibili, le stimmate di quello che allora era considerato un vizio inconfessabile, la sua omosessualità, leggibile in trasparenza nelle lettere agli amanti e agli amici. Per lo stesso motivo Proust era ostile alle biografie, temendo che l’inevitabile scandalo sollevato dalla sua omosessualità distraesse il lettore o lo allontanasse dalla sua opera”.


In che senso Proust fu snob?

“Disgustato e tradito dai compagni di scuola, Proust aveva adottato, per quanto gli era possibile, lo stile di vita e il linguaggio giocosamente infantile di un gruppo di giovani aristocratici. Isolato dalla propria inevitabile superiorità, Proust aveva pensato che forse la nobiltà, quel gruppo sociale che si riteneva naturalmente superiore agli altri, avrebbe potuto accettare la sua eminenza interiore. Ma non fu così e ad irritarsi della sua innegabile statura furono spesso i membri più intelligenti di quella frivola élite. Ogni volta che la loro amicizia veniva messa alla prova, come al momento dei loro matrimoni, Marcel veniva spietatamente escluso”.


In cosa Proust è ancora attualissimo?

“Le chiavi di Proust, lo snobismo e la gelosia, sono sempre attuali. Lo snobismo non è riservato alle élites ma spazia in tutte le classi sociali; non bisogna lasciarsi ingannare dall’appannarsi del mito dell’aristocrazia. Le incessanti metamorfosi dello snobismo lo spingono negli ambienti più imprevisti, dai rapper agli influencer. La gelosia rimane sempre uno straordinario strumento di conoscenza, come un microscopio, lo sguardo del geloso indugia su ogni gesto, analizza ogni minimo indizio alla ricerca di una rivelazione sperata o temuta”.

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