Nel 1983 Gorbaciov era ancora da venire e la caduta del Muro di Berlino era pura fantascienza. Penetrare la cortina di ferro che divideva l’Europa al di fuori dei canali ufficiali era considerata impresa temeraria, da lasciare unicamente alle spie e agli agenti segreti. Eppure, proprio nel 1983 una banda di criminali emiliani trafuga sette capolavori del Rinascimento italiano dal Museo di Belle Arti di Budapest. L’invulnerabilità del granitico e apparentemente inespugnabile sistema di Oltrecortina viene clamorosamente violata. La ferita inferta al regime totalitario dell’Ungheria e la temerarietà degli autori del furto rendono unica questa storia rocambolesca che mise in grave imbarazzo il presidente ungherese János Kádár. Molto tempo dopo si saprà che servizi segreti, politica e criminalità hanno svolto un ruolo determinante in questa vicenda.

Ma cosa si nasconde dietro il “furto del secolo”?​ A rispondere a questa domanda e anche alle tante altre che accompagnano questa vera e propria spy story degna dei migliori romanzi sulla Guerra fredda è il libro 1983: operazione Budapest (Sandro Teti editore, 2021, Euro 18, pp. 228). A scriverlo Roberto Tempesta, investigatore di punta del Nucleo tutela patrimonio culturale dei Carabinieri, e Gilberto Martinelli, grande esperto di relazioni italo-magiare. A Martinelli chiediamo come è nata l’idea di raccontare la vicenda di “1983: operazione Budapest”: “Dal 2005 mi occupo di rapporti culturali tra Italia e Ungheria e, con l’aiuto di ricercatori e docenti universitari, ho confezionato venti film-documentari su personaggi o fatti relativi alle relazioni tra i due stati. Ho sempre trattato questioni storiche, inedite, rispolverando gli archivi dei due paesi. 1983: operazione Budapest nasce invece in seno alla contemporaneità: una storia che ho proposto alle istituzioni ungheresi e che, pur essendo di natura criminale, aveva valenze che i committenti hanno subito colto. Così poi, grazie alla ricerca completa e meticolosa della dottoressa Anna Nagy e alle testimonianze dei protagonisti, è nato l’affresco inquietante – e affascinante – di una storia che doveva essere conosciuta, tanto che poi l’ho raccontata sia in un documentario sia in questo libro”. 

Perché questa storia va conosciuta?

“È una storia che attraversa trasversalmente diverse discipline: l’arte, il crimine, la politica, gli usi e i costumi. Ha però un collante insolito e sconosciuto, le operazioni di intelligence: ognuno ha avuto il proprio interesse a far sì che tutto quel che abbiamo raccontato accadesse. Il crimine non è generato da gesti solistici e sconsiderati, ma attrae più interessi: è compito dell’intelligence conoscere come questo accada – e non è raro che poi, addirittura, ne faccia uso. È un filo logico teso perché gli sprovveduti possano inciamparvi. È curioso come questi meccanismi siano sconosciuti al grande pubblico nonostante ci siano migliaia di film e libri di questo genere. Insomma, credo che questa storia vada conosciuta per rendere noti aspetti reconditi del crimine e dell’investigazione, soprattutto per rendere accessibile il mondo dell’intelligence a chi ne ha un’idea distorta e stereotipata. Credo sia interessante per il lettore, poi, il contesto storico, riassunto nelle vite dei protagonisti e nella singolare operazione internazionale di polizie provenienti da due blocchi apparentemente lontanissimi tra loro. Certo, una storia tanto complessa, avrebbe forse richiesto la redazione di più saggi specifici.”

Perché avete scelto di raccontarla sotto forma di romanzo?

“L’esigenza di trarne un romanzo è stata consequenziale al percorso fatto da questo lavoro: nato come progetto di ricerca e diventato un documentario omonimo, la ricchezza di informazioni tanto dettagliate, la completezza delle fonti, le testimonianze dirette dei protagonisti – tra l’altro condite di aneddoti, alcuni divertenti e altri tragici –, la perfetta cronologia e il susseguirsi di episodi rocamboleschi, hanno dato inchiostro alla penna. Gli ingredienti c’erano davvero tutti, le incredibili casualità e la presenza di un finale hanno fatto il resto. La tecnica della deduzione, poi, è il passamano per la scorrevolezza del libro.”

Perché trafugare opere d’arte non è un semplice furto ma può diventare un affare di Stato?

“Il committente del furto di Budapest era un greco, ricco esportatore d’olio e armatore, che avrebbe usato le opere d’arte come fideiussioni per traffici poco leciti. Solo dieci anni dopo, però, le opere d’arte diventarono oggetto di una presunta trattativa con lo Stato – questo è l’argomento della seconda parte del romanzo, dove credo che al lettore diverrà chiaro che l’arte è un bene da proteggere prima che da mostrare. Quest’ultimo era un concetto ben chiaro a chi voleva colpire lo Stato, talmente chiaro da aver condizionato persino il finale del nostro libro.”

Dietro il “furto del secolo” c’erano molte verità nascoste... quali siete riusciti a scoprire e quali invece vi sono sfuggite?

“Senza alcuna presunzione, non credo ci sia sfuggito nulla. Alla fine, abbiamo lavorato in tre, con storie e competenze diverse: Anna Nagy, ricercatrice accademica; io, analista e ʻricercatoreʼ sul campo; Roberto Tempesta, investigatore con una lunga storia di successi alle spalle. Tre diversi approcci allo stesso fatto che hanno dato linfa vitale a quella storia, e chi l’ha vissuta non ha potuto che confermare – e in qualche caso arricchire – quello che già sapevamo. Sono rimaste misteriose piccole cose, quasi insignificanti per la storia, cose che non potremmo mai conoscere perché alcuni dei protagonisti non sono più in vita. Al lettore rimarranno invece oscuri alcuni passaggi che non avrebbero tutelato le nostre fonti: questo però ci ha costretto a fare meglio – poi, per la verità, leggendo bene e con occhio critico, non ci sono poi molte censure...”.

La copertina
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