Trent’anni senza Sergio Atzeni, lo scrittore cagliaritano che inventò la Sardegna del futuro
La sua voce continua a risuonare: limpida, ribelle, capace di raccontare l’Isola come nessuno primaPer restare aggiornato entra nel nostro canale Whatsapp
Ci sono un luogo e una data che hanno segnato per sempre la sua fama eterna: Carloforte, 6 settembre 1995.
Lì, spinto da un’onda contro gli scogli, perde la vita Sergio Atzeni, 43 anni appena, uno degli scrittori più visionari della sua generazione. Ma a trent’anni dalla sua scomparsa, la sua voce continua a risuonare: limpida, ribelle, capace di raccontare la Sardegna come nessuno prima.
Nato a Capoterra, cresciuto a Cagliari, Atzeni attraversa da giovane il giornalismo militante, la politica comunista, la precarietà del lavoro. Collabora con testate come L’Unione Sarda, ma anche L’Unità, La Nuova Sardegna e Linus, fonda la rivista Altair, e presto sceglie l’esilio volontario: prima in Europa, poi a Torino. È lì che sboccia lo scrittore, con romanzi che intrecciano memoria storica e invenzione mitica, umili e ribelli, nuraghi e minatori, antichi dèi e bambini di periferia.
Il suo sguardo è sempre rivolto agli ultimi: gli sconfitti, i marginali, i “figli di Bakunìn” che popolano i vicoli di Iglesias come i campi minati della storia sarda.
Nei suoi libri, dalla saga cosmica di “Passavamo sulla terra leggeri” (pubblicato postumo) al canto di Cate in “Bellas mariposas”, la lingua si piega e si reinventa, fondendo sardo e italiano come Camilleri avrebbe fatto col siciliano. Una scelta stilistica che non è vezzo, ma resistenza culturale, un modo per dare dignità letteraria all’oralità popolare.
Sergio Atzeni però è stato anche un uomo tormentato. La militanza politica lo aveva deluso e il suo rapporto con la religione oscillava tra rifiuto e riavvicinamenti problematici.
Amava definirsi “sardo, italiano, europeo”: una triplice appartenenza che lo aveva portato a interrogarsi su identità e destino, su cosa significasse crescere e scrivere in un’Isola “ai margini” durante gli anni più tesi della storia italiana.
La sua opera, insieme a quella di Giulio Angioni e Salvatore Mannuzzu, ha aperto la strada alla cosiddetta “nouvelle vague” della narrativa sarda, oggi studiata e tradotta anche fuori dai confini nazionali.
Eppure, resta sempre viva la domanda che aleggia tra critici e lettori: cosa avrebbe ancora scritto Atzeni se il mare di Carloforte non lo avesse strappato troppo presto? Forse non lo sapremo mai. Ma i suoi libri, ancora oggi amatissimi, continuano a fare quello che lui desiderava: raccontare la Sardegna non come cartolina, ma come cosmogonia viva, un luogo in cui i vinti diventano eroi e la memoria diventa futuro.