Il ritmo della terra: viaggio sacro e profano nel cuore del ballo sardo
Un sistema complesso e affascinante di linguaggi del corpo e del suono, tramandato oralmente per generazioniPer restare aggiornato entra nel nostro canale Whatsapp
C'è un istante preciso, in Sardegna, in cui la terra sembra trattenere il fiato. È quando il suono delle musica tradizionale si solleva nell’aria, penetrando la memoria collettiva come un richiamo ancestrale. Le mani si cercano, si afferrano “a manu tenta”, le schiene si tendono e le gambe fremono: è il momento in cui su ballu sardu prende vita.
Il ballo sardo, non è un semplice insieme di danze tradizionali. È un sistema complesso e affascinante di linguaggi del corpo e del suono, tramandato oralmente per generazioni, e oggi considerato uno dei patrimoni coreutici più ricchi e profondi non solo d’Italia, ma dell’intero Mediterraneo.
Sotto questa definizione ricade una pluralità di forme — su ballu tundu, a passu, ballu seriu — ciascuna con caratteristiche proprie e varianti locali, che raccontano la diversità culturale di una terra multiforme, eppure profondamente coesa nel sentimento di appartenenza.
La sua origine si perde nella notte dei tempi, verosimilmente collegata a cerimonie sacre della preistoria: danze propiziatorie per una caccia abbondante o un raccolto favorevole, rituali intorno al fuoco che segnavano il legame indissolubile tra la comunità e gli elementi.
Ancora oggi, durante le feste paesane, la danza si consuma attorno a fuochi rituali, in una dimensione che è insieme pagana e spirituale.
Il cerchio — la figura dominante del ballo — è emblema di coesione, una geometria simbolica in cui il singolo scompare per diventare parte di un tutto. E il corpo obbedisce a leggi antiche: il busto è fermo, la parte superiore solenne e composta, mentre gli arti inferiori si incaricano della mobilità, generando un movimento pulsante, simile a un respiro collettivo.
Le danze sarde si dividono in due grandi famiglie: le monostrutturate, più antiche e le bistrutturate, evoluzioni più articolate con alternanza di ritmo e intensità.
Le prime — su ballu seriu, su passu torrau, su ballu tsoppu, su ballu gabillu, su passu 'e trese — si distinguono per un andamento ritmico regolare e solenne, spesso accompagnate dal canto monodico o dalle launeddas.
Le seconde, più dinamiche e spettacolari, alternano una parte lenta (sa seria, su passu) a una più vivace e acrobatica (sa lestra, brincada), come accade in sa dantza, su ballu brincadu, su ballu sàrtiu, su dillu, su bìcchiri, sa logudoresa. In questi balli la fisicità esplode in salti, battute di piedi, improvvise accelerazioni, quasi a mimare la vitalità inarrestabile dell’isola stessa.
Ma ciò che rende il ballo sardo un unicum antropologico è il suo rapporto profondo con il numero. Non solo i classici tre passi di su ballu tundu o le corse energiche di su ballu mannu, ma l’intera cultura materiale e simbolica sarda sembra ruotare attorno a multipli del tre: nei tessuti, nei pani cerimoniali, nelle musiche, nelle architetture nuragiche, nei pozzi sacri, persino nella poesia improvvisata, che ha nel numero 36 il suo principio ordinatore.
Anche le varianti stilistiche rispecchiano la geografia dell’Isola: nel Capo di Sopra si prediligeva l’eleganza della postura e l’armonia dell’intero corpo in movimento; nel Capo di Sotto, invece, si accentuava il ritmo convulso delle gambe, in un’esplosione cinetica che sembra rispecchiare la natura aspra e appassionata di quei territori.
L’identità sarda, d’altronde, è sempre stata refrattaria alle sovrascritture: nessuna delle dominazioni subite nei secoli — romana, spagnola, piemontese, italiana — è riuscita a scalfire davvero il nucleo profondo di un popolo che si è sempre definito sardu, e mai altro.
Se le colonizzazioni hanno influenzato solo l’esteriorità — i costumi, le etichette, i registri burocratici — il ballo è rimasto un rifugio intatto, un linguaggio impenetrabile, radicato nella sostanza e non nel simbolo.