C’è un suono che da millenni attraversa l’Isola, sottile e insieme possente, capace di ipnotizzare chi lo ascolta e di accompagnare il passo delle danze popolari come il silenzio dei riti sacri.

È il suono delle launeddas, lo strumento a fiato più antico del Mediterraneo occidentale, ancora oggi vivo e pulsante nelle feste della Sardegna.

Ogni paese lo chiama a modo suo: lioneddas, leuneddas, bisonas, sonus de canna, nel Logudoro benas, in Planargia e Montiferru trubeddas, a Ovodda bidulas. Questa pluralità linguistica racconta la diffusione capillare dello strumento che nasce nel sud Sardegna e l’intimità con cui le comunità sarde lo hanno custodito e tramandato.

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Il mistero delle launeddas comincia già dalla materia prima. Sono infatti costruite con la canna comune (Arundo donax), pianta delle graminacee che cresce lungo i corsi d’acqua e nelle pianure costiere. Non tutte le canne, però, sono uguali: la qualità dipende dal terreno e dalle condizioni ambientali e i maestri costruttori sanno scegliere quelle giuste con occhio esperto.

La raccolta segue regole precise, legate ai cicli lunari. Tradizione vuole che le canne vengano tagliate tra gennaio e marzo, nelle notti di plenilunio – sa luna prena – secondo un sapere antico che affonda nelle pratiche del culto selenico. Dopo il taglio, la stagionatura: le canne non possono essere usate subito, ma devono riposare per almeno un anno, meglio ancora di più. Più lunga è l’attesa, migliore sarà lo strumento che ne nascerà.

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Le launeddas sono formate da tre canne di diversa lunghezza e spessore. Su tumbu, la più lunga e robusta, produce la nota grave e continua, un pedale che regge tutta la melodia. Sa mancosa – detta così perché affidata alla mano sinistra – è più corta e sottile, ha quattro fori frontali e un’apertura regolabile con la cera, che permette di correggere l’intonazione. La terza canna, sa mancosedda o “destrina”, è la più piccola e libera, sorretta dalla mano destra, ed è quella che porta la linea melodica.

Su tumbu e la mancosa sono legati insieme con spago impeciato e formano sa croba; unite alla mancosedda danno vita a su cuntzertu, un microcosmo armonico che viene custodito in uno speciale astuccio cilindrico di pelle, su cracasciu.

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Ma parlare di “launeddas” al singolare è riduttivo: esistono infatti numerosi tipi di cuntzertus, ciascuno con le proprie tonalità e peculiarità, dal punt’e orgànu al fiorassu, dalla mediana alla zampogna, fino al frassettu. Ognuno ha un nome proprio e un timbro distintivo e non mancano strumenti oggi caduti in disuso, come Su Para e Sa Mongia o Su Moriscu

Il legame con il mondo classico è fortissimo. Gli studiosi vedono nelle launeddas l’erede diretta degli auloi greci, i doppi flauti che la leggenda vuole inventati dal satiro Marsia. Le analogie sono evidenti: canne unite con filo e cera, ance vibranti, un suono continuo e penetrante. Se nell’aulòs le canne erano due, nelle launeddas diventano tre, ma l’idea resta la stessa: intrecciare più voci in un unico respiro.

Una conferma affascinante arriva dall’archeologia. A Ittiri è stato ritrovato un bronzetto raffigurante un suonatore nudo e itifallico con tre canne in bocca, oggi custodito al museo archeologico di Cagliari.

Giovanni Lilliu, il padre dell’archeologia in Sardegna, aveva identificato lo strumento come un prototipo di launeddas: un flauto a triplice canna, con la più lunga senza fori a fare da pedale e le altre due destinate al canto. Un’immagine che lega le launeddas ai riti di fertilità e alle cerimonie orgiastiche, collocandole al centro di un universo religioso e sociale che vedeva nella musica un ponte tra umano e divino.

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Ma il vero segreto delle launeddas non è solo nella materia o nella forma, bensì nella tecnica che le anima: il fiato continuo.

Il suonatore gonfia le guance come otri e alterna la respirazione nasale con la pressione dell’aria accumulata nella bocca, così da non interrompere mai il suono. È un meccanismo raffinato e faticoso, che richiede anni di pratica e che colpisce da sempre l’immaginazione popolare: «Portada is trempas che unu sonadori ’e launeddas», dice un detto, ricordando l’immagine dei musicisti con le guance eternamente dilatate.

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Grazie a questa tecnica, le launeddas producono un flusso ininterrotto, ipnotico, capace di accompagnare processioni solenni e balli scatenati senza che il respiro si spezzi.

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È come se la musica stessa diventasse respiro infinito, simbolo della continuità tra uomo, natura e tempo. Ma le launeddas non appartengono solo al passato: continuano a suonare, a incantare e a raccontare al mondo il volto più antico e vibrante della Sardegna.

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