Non si vede e non si sente. È piccola, nera, lucida. Ha tredici macchie rosse sull’addome e un veleno antico quanto la paura stessa. In Sardegna la chiamano “Argia”, ma per i sardi non è solo un ragno velenoso, è una condanna, un segno dal mondo di sotto, una possessione che si cura ballando. Letteralmente.

Nel cuore dell’estate, quando il sole piega le ombre tra i muretti a secco e la polvere si alza leggera nei campi, c’è un momento in cui il respiro della terra si trattiene.

Un fruscio tra le sterpaglie, un silenzio più cupo del solito. Lì vive l’Argia, l’aracnide che l’Isola teme e venera da secoli. Un piccolo essere il cui morso, più che ferire, trasforma. Un veleno che prende possesso del corpo, della mente, dell’anima.

Secondo la leggenda, quando Dio decise di liberare la Sardegna da ogni creatura velenosa, ne annientò a migliaia: vipere, scorpioni, insetti letali. Ma l’Argia no. Troppo piccola per l’occhio divino, troppo furba per la distruzione. Rimase nascosta, e con lei il suo veleno: quindici volte più potente di quello di un serpente a sonagli.

Il suo aspetto è inconfondibile: corpo nero, lucido, con tredici piccole macchie rosse — le stigmate della sua dannazione. Vive tra gli anfratti della macchia mediterranea, nelle pinete costiere, nei rimboschimenti e nei campi coltivati. Eppure non fa paura solo per quello che è, ma anche per quello che evoca.

Il morso dell’Argia è silenzioso. Inizialmente non lascia dolore. Ma poi arrivano i sintomi: sudore freddo, febbre alta, tremori, conati, spasmi addominali. E ancora visioni, allucinazioni, crisi epilettiche. Chi ne è colpito diventa un “posseduto”. Nelle comunità agro-pastorali, la diagnosi era spirituale: non era il ragno ad aver punto, ma il demonio ad aver trovato un corpo da abitare.

“S’argiau”, lo chiamavano. Colui che è stato preso. E per salvarlo, non bastavano erbe o preghiere. Ci voleva il rito. Quello antico. Quello che faceva tremare la terra. Il malato veniva spogliato della propria identità e calato in una fossa, avvolto in un sacco, ricoperto di letame fino al collo. Il corpo prigioniero, la testa all’aria, sotto gli occhi della comunità. Intorno, ventuno donne danzavano instancabili: sette vedove, sette spose, sette vergini. Il numero perfetto per evocare le tre lune — calante, piena, crescente — e armonizzare il corpo col cosmo.

Ma prima della danza, c’era l’interrogatorio al demonio. Una persona vicina, scelta tra i familiari, parlava con il malato e con la voce che da lui emergeva. Era l’Argia a rispondere: a volte con parole semplici, altre con “brebus”, frasi ritmiche, oscure, da sciamano.

Durante il ballo la musica delle launeddas scandiva ogni movimento, imitando gli spasmi della possessione. Il ballo durava giorni. Nessuno sapeva se avrebbe funzionato. Ma quando il tremore si fermava, quando il posseduto tornava a respirare con calma, la comunità capiva: l’Argia era stata scacciata.

Il ballo dell’Argia non è folklore, ma un esorcismo danzato, un rituale lunare, una terapia collettiva di sopravvivenza. È la sorella sarda della Taranta del Sud Italia. Ma con una sfumatura più oscura, più sacrificale. Perché qui, il posseduto non era solo un malato da curare, ma una minaccia per l’intero villaggio, un avvertimento delle forze del male.

Ogni categoria di donna coinvolta nella danza — nubile, sposata, vedova — rappresentava un’età della vita e un’energia cosmica. Ogni gesto, ogni sputo, ogni scherno serviva a provocare una reazione, a strappare l’anima dall’abisso. E quando il malato guariva, non ricordava nulla. Era come rinato, purificato. O vuoto.

Oggi, la figura dell’Argia sopravvive nei racconti, nei nomi dialettali (s’arza, s’arja, vaglia), nelle rievocazioni teatrali. Ma dietro l’aneddoto c’è un modo arcaico di leggere il dolore, la malattia, la follia. Un modo collettivo, simbolico, sensuale e spirituale di reagire all’ignoto.

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