C’è una musica che non nasce da strumenti, ma dal respiro stesso di un popolo. Una musica capace di evocare il vento sulle montagne della Barbagia e i ritmi segreti della terra. È il canto a tenore, patrimonio immateriale dell’umanità Unesco dal 2006, una delle tradizioni più antiche e identitarie della Sardegna.

Dietro la parola “tenore” – che in altri paesi dell’Isola diventa “cuncordu, cussertu, cuntzertu, cunsonu o cuntrattu” – si nasconde l’ensemble di quattro uomini che lo eseguono, ciascuno con un ruolo ben preciso. Al centro c’è sa boghe, il solista che intona in lingua sarda testi poetici, spesso endecasillabi. Attorno a lui, tre voci che non cantano parole, ma sillabe nonsense: su bassu, sa contra e sa mesu boghe.

Sono loro a creare il caratteristico impasto sonoro, gutturale e arcaico, che trasforma il canto in un corpo unico, in cui si mescolano armonia, improvvisazione e memoria.

La magia del tenore sta nella sua libertà: non ci sono sequenze rigide, ma formule melodico-armoniche di base che vengono intrecciate di volta in volta. È così che ogni esecuzione diventa irripetibile, un dialogo tra tradizione e sensibilità del momento. Tre le forme principali del repertorio: la boghe sèria (o boghe ’e notte), lenta e meditativa, un tempo legata alle serenate; i muttos, canti poetici d’amore o satira; e la boghe ’e ballu, nata per accompagnare le danze sarde, oggi la preferita dai più giovani per la sua energia ritmica.

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Non a caso, il canto a tenore continua a vivere non solo nelle cerimonie e nelle rassegne ufficiali, ma soprattutto nei contesti quotidiani: nei bar di paese (su tzilleri), alle feste patronali, persino durante i rebottas, i tradizionali spuntini collettivi. Più di sessanta comunità del centro-nord Sardegna hanno sviluppato nel tempo un proprio “dialetto musicale”, chiamato traju o trattu. Questo mosaico di stili fa del tenore non solo un canto, ma un linguaggio vivo, che racconta la storia e l’identità delle comunità che lo custodiscono.

La sua origine si perde nei secoli. Già nei primi decenni dell’Ottocento studiosi come Giovanni Spano e Nicolò Oneto lo descrivevano come una pratica “antica”, sottolineandone la diffusione capillare e la ricchezza delle varianti. La scrittrice René Juta, nel 1926, lo definiva “una voce che ricrea il ritmo e l’armonia della Natura… sonorità remote di una più vasta armonia”. Una descrizione che conserva intatta la sua potenza evocativa.

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Oggi, nonostante i cambiamenti socio-economici e il declino della cultura pastorale che lo ha generato, il canto a tenore è tutt’altro che in via di estinzione. Anzi, tra i giovani della Sardegna centrale è tornato a essere “alla moda”, simbolo di appartenenza e orgoglio identitario.

In estate, non è difficile ascoltarlo nelle feste di paese, quando gruppi di cantori salgono “su palcu” davanti al pubblico, o alle rassegne che animano centri come Orgosolo, Bitti, Oliena, Orosei, Mamoiada, Lula e molti altri.

Un canto arcaico, eppure moderno nella sua capacità di rigenerarsi. Una voce collettiva che ha resistito al tempo e oggi continua a raccontare, con la forza della coralità, l’anima più profonda della Sardegna.

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