"È spaventoso che chiunque si sia trovato a tu per tu con questa storia si sia voltato dall'altra parte". È il primo commento di Alessandro Borghi, protagonista di "Sulla mia pelle", film sugli ultimi sette giorni di vita di Stefano Cucchi e che apre oggi al festival di Venezia la sezione Orizzonti.

"Questo film racconta, non giudica. E per farlo abbiamo studiato accuratamente i verbali, le testimonianze, anche per provare a capire chi avesse interesse a portare acqua al proprio mulino e chi no", dice Alessio Cremonini, alla regia della pellicola che ha ricevuto applausi dal pubblico.

"Quando Stefano Cucchi muore nelle prime ore del 22 ottobre 2009, è il decesso in carcere numero 148. Al 31 dicembre dello stesso anno, la cifra raggiungerà l'incredibile quota di 176. Negli ultimi 5-6 anni ci sono stati circa 800 suicidi in carcere. Mi sembra evidente - spiega ancora il regista - che il sistema carcerario di questo Paese faccia acqua da tutte le parti. E credo per questo che sia molto difficile lavorare in contesti che ospitano il doppio dei detenuti che potrebbero contenere. Quindi ci sono persone che lavorano in condizioni disastrose".

"Sulla mia pelle" non ha l'obiettivo di ergersi a film-manifesto, il focus è invece su quei 7 giorni che separarono l'arresto per detenzione e spaccio di stupefacenti di Cucchi dalla sua morte.

"Stefano viene a contatto con 140 persone tra carabinieri, giudici, agenti di polizia penitenziaria, medici, infermieri e in pochi, pochissimi, hanno intuito il dramma che stava vivendo", sottolinea Cremonini.

Un'altra immagine dal film
Un'altra immagine dal film
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"Di tutta la vicenda, le polemiche, i processi, è l'ovvia e penosa impossibilità di difendersi, di spiegarsi, da parte della vittima ad avermi toccato profondamente. Tutti possono parlare di lui, tranne lui. Ecco, il film, tra le varie cose, è modo di battere, di opporsi alla più grande delle ingiustizie: il silenzio.

Quasi a voler strappare Stefano alla drammatica fissità delle terribili foto che tutti noi conosciamo, che lo ritraggono morto sul lettino autoptico, e ridargli vita", conclude il regista.

Per Borghi, una delle interpretazioni più dolorose della sua carriera, con diciotto chili persi per la parte: "La cosa che spaventa è che tutti quelli che sono venuti a contatto con questo avvenimento non hanno fatto nulla. Col passare del tempo si sta istituendo questa abitudine del giudizio immediato, ovvero 'sei drogato quindi mi fai schifo'. È ovvio che tutto questo può riaccadere e credo che si possa considerare omicidio di Stato nel momento in cui nessuno si è voluto prendere la responsabilità di dire che quel ragazzo nel giro di qualche giorno sarebbe morto. Pur sapendo quello che gli era successo".

(Unioneonline/v.l.)

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