Tornare a casa per paura o necessità. Fuggire dal Covid e cercare riparo in famiglia, tra le strade della propria infanzia, a costo di rinunciare per sempre a un'esistenza costruita con fatica in terre lontane. Ecco le storie di chi l'ha fatto senza rimpianti.

Hostess

Alcuni hanno resistito a tutto: lo tsunami alle Maldive nel 2004, l'instabilità politica in Medio Oriente, la difficoltà di una lingua da imparare da zero. A tutto, ma non al coronavirus che a migliaia di chilometri dall'Italia fa ancora più paura. «Francamente ho pensato: se devo morire, meglio morire in Sardegna». Per fortuna Ilenia Cardia non è morta: a 34 anni ha lasciato la sua casa nel nord di Londra, un lavoro al Bloosmbury hotel, il master all'Anglia Ruskin University ed è tornata a Dolianova. «Sono diverse le ragioni della mia scelta: la prima è che l'hotel in cui lavoravo ha chiuso da marzo a settembre. Per non parlare del fatto che ho più fiducia nell'assistenza sanitaria italiana e che non volevo vivere questa situazione lontana dalla mia famiglia». A eccezione di un paio di biglietti rinviati di qualche giorno, il rientro dal Regno Unito non ha riservato troppi ostacoli.

Consulente

Ben più complicato imboccare la via di casa per Romina Portas, 47enne di Samassi che dal 2014 vive a Islamabad, in Pakistan, dove lavora come coaching e come consulente per l'ambasciata e aziende private. La terribile primavera del Covid e il primo spicchio d'estate sono trascorse nell'attesa del rientro arrivato solo alla fine di luglio. «Le strutture sanitarie erano al collasso e la qualità dell'assistenza non è, come è chiaro, al nostro livello. Alle cliniche private si può accedere solo con alcune assicurazioni e la mia non copriva il Covid. Per questo sono tornata: tra l'altro già da tempo seguo tutto in smart working, quindi non mi sono fermata mai». Per raggiungere casa, Romina è dovuta volare da Islamabad a Doha prendere la coincidenza per Roma salire su un volo per Cagliari e finalmente imboccare la 131 in direzione di Samassi dove qualche giorno dopo è arrivato anche Francesco Tanas, 54 anni, emigrato nel 1996.

Manager

«Ho lavorato nel turismo in tutto il mondo e da dieci anni vivo a Panama, dove ero socio di un'azienda che si occupa di import-export. Con la pandemia gli affari sono diminuiti e a un certo punto ci siamo chiesti cosa fosse meglio fare». La decisione di chiuder tutto e venir via ha dovuto attendere la riapertura dei voli e un lockdown rigidissimo. «A Panama tutte le attività erano chiuse. Le uscite regolate in base al sesso e ai documenti. Gli uomini potevano uscire - solo nei pochi casi consentiti - nei giorni dispari e le donne in quelli pari. La fascia oraria - perché era concessa un'ora di tempo - veniva individuata dall'ultimo numero della carta d'identità». Non avendo più un lavoro anche l'assistenza in caso di contagio era a rischio. «Il sistema è identico a quello americano: se smetti di lavorare non versi più le quote e non sei coperto a meno di pagare cifre molto alte. Meglio tornare qui». Una scelta che non avrebbe mai immaginato di fare. «Neppure lo tsunami del 2004 alle Maldive, dove mi trovavo per lavoro, mi ha fatto tornare a casa. In quel momento non mi sono mai preoccupato per me. Stavolta è stato diverso. E poi qui ho i miei genitori: sono anziani, diciamo che è l'opportunità per stare con loro».

Barista

Non ha esitato a far le valigie e salire su un aereo insieme alla moglie Francesca e alla loro bambina di pochi mesi neppure Carlo Murgia, 47 anni, partito diversi anni fa da Seulo alla volta di Londra. Da tre anni faceva base a Guildford, cittadina di poco meno di 100mila abitanti a sud del Big Ben, dove lavorava in un ristorante italiano come barman. «Imparare l'inglese a 40 anni non è stato facile e in testa l'idea di rientrare forse girava da un po'. Ma con il Covid non ho più avuto dubbi. Non c'era alcuna attenzione dal punto di vista dei contagi, soprattutto all'inizio la situazione è stata gestita malissimo: nessun obbligo di mascherina, solo il gel all'ingresso dei negozi». A Seulo per sempre? «Con questa pandemia abbiamo dovuto imparare che per sempre non possiamo più dirlo. Di sicuro per ora restiamo qua. Io ho ripreso in mano un'azienda agricola di famiglia di cui mi occupo a tempo pieno».

Commesso

L'abbraccio con i parenti a Seulo (e col fratello Enrico, sindaco del paese) è dei primi di luglio. «Qui la vita ha un altro valore, il clima, la terra. L'ho sempre saputo ma ora che sono tornato non lo posso scordare». Rientrato in tempi strettissimi anche il nipote di Carlo, Riccardo Murgia, 21 anni di cui due trascorsi in Inghilterra. «Avevo un buon lavoro come manager in un negozio di elettrodomestici, ma non mi sono mai pentito di essere tornato in Sardegna e di averlo fatto in fretta». In effetti Riccardo è stato il più veloce: il 14 marzo, quando l'Italia stava per entrare nella sua fase più nera, lui è volato via dal Regno Unito ed è atterrato a Cagliari. «Ho lasciato nella casa inglese molte cose, forse un giorno tornerò a riprenderle. Qui ho fatto la quarantena, anzi ne ho fatto due. Ora lavoro come promoter e quando tutta questa cosa finirà deciderò cosa fare».

Chef

È ancora in quarantena, invece, Raffaele Pilia, 47enne di Isili, decollato dalla Gran Canaria il 31 ottobre. «Ho vissuto lì per 12 anni e lavoravo come cuoco in un ristorante spagnolo che è stato chiuso per il lockdown dal 15 marzo al primo agosto. Non so se sia stato il richiamo di casa, della famiglia, ma sono voluto tornare». Il cuoco risponde al telefono dalla taverna dei genitori dove trascorre i giorni di isolamento insieme alla fidanzata friulana. Al rientro ha trovato un paese in cui il numero di contagiati è più alto che altrove. «Che dire? Anche qui il rischio di ammalarsi c'è e servirà prestare molta attenzione, ma almeno sono a casa. A ripartire non penso neanche: io ho già ripreso la residenza in paese».

Mariella Careddu

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