«Questo virus è una brutta bestia, chi non ci crede dovrebbe farsi un giro nei reparti Covid». Sa di cosa parla Roberto Sailis, macellaio 42enne di Senorbì (anche se originario di Guasila), che ha convissuto con l'incubo coronavirus per quasi un mese. Venti giorni di ospedale, maschera con ossigeno e una paura immensa di non poter più abbracciare moglie e figli. «Ho conosciuto la paura e la solitudine - racconta -, è lì, all'interno dei reparti Covid, che si combatte la vera battaglia. Medici e infermieri in prima linea e i malati catapultati in un vortice di angoscia difficile da spiegare». C'è anche un pizzico di rabbia: «Non riesco a credere che ci siano ancora tante persone convinte che la malattia non esista».

La testimonianza

A vederlo servire i clienti nella macelleria del supermercato in cui lavora da anni, Sailis sembra il ritratto della salute. E in effetti dopo l'incubo Covid si è ripreso bene. È un omone alto 180 centimetri per 110 chilogrammi di peso, sorriso sempre stampato in faccia, cordiale con i clienti e sempre (o quasi) di buon umore. «È stato bello ritornare alla vita normale - dice -, penso alle persone che non ce l'hanno fatta e ai tanti che ancora soffrono, tutto questo mi rattrista. In ospedale ho conosciuto un'anziana signora che aveva dei parenti a Senorbì, dopo una settimana dal mio rientro ho rintracciato la figlia perché volevo conoscere le sue condizioni, purtroppo non ce l'aveva fatta. È stato un brutto colpo scoprirlo in quel modo».

Il ricovero

I primi segni dell'infezione sono arrivati insieme a stanchezza e debolezza, poi sono comparse anche alcune linee di febbre. Erano i primi di ottobre: dopo due giorni a casa seguendo le indicazioni del medico di famiglia, la situazione è peggiorata. «Ero a pezzi - racconta -, mia moglie mi ha dovuto aiutare a uscire dalla doccia». La mente va a quei giorni terribili, la corsa in ambulanza e l'arrivo in ospedale dove il tampone è risultato positivo. «Quello era un girone dell'inferno - continua Sailis - i malati arrivavano di continuo. Non c'erano posti a sufficienza, io stesso sono rimasto nell'andito tutta la notte». Ottimo il ricordo del personale ospedaliero: «Medici e infermieri sono stati fantastici. Non potevamo vedere nessuno, quando ci somministravano le terapie ci sentivamo un po meno soli. I familiari ci portavano il cambio lasciandolo alla guardia giurata». I contatti con l'esterno? «Fortuna che avevamo il telefonino». Paura tanta, soprattutto quando è stato necessario aumentare l'ossigeno. «Mio padre è morto tempo fa a causa di problemi ai polmoni, in quei momenti ho pensato tanto a lui».

Severino Sirigu

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