Con Decreto del Presidente della Repubblica 28 gennaio 2020 sono stati convocati i comizi per il giorno di domenica 29 marzo per lo svolgimento del Referendum Costituzionale inerente l’approvazione, o meno, del testo di legge costituzionale concernente "Modifiche agli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione in materia di riduzione del numero dei parlamentari", approvato lo scorso anno dal Parlamento, e pubblicato nella G.U. n. 240 del 12.10.2019.

Detto altrimenti, saremo chiamati ad esprimere il nostro assenso, oppure il nostro dissenso, nei confronti di una riforma costituzionale che si pone quale fine ultimo la riduzione sia del numero dei deputati, che passeranno da 630 a 400, sia del numero dei senatori, che passeranno da 315 a 200. Apparentemente, fin qui, nulla quaestio, se solo non fosse che questa riforma, al di là degli sterili proclami di piazza, si presenta in realtà priva di una ratio effettiva, profonda e convincente siccome scaturente unicamente da una cultura politica dichiaratamente antiparlamentare e anti casta portata avanti, curiosamente e vergognosamente, da parte di chi casta lo è gradatamente divenuta, e ciò nonostante si fa a tutt’oggi ancora lecito di manifestare contro se stesso pur avvalendosi, anche in occasione della protesta, niente poco di meno che delle lussuose "auto blu" di rappresentanza, simbolo inequivocabile di privilegi inossidabili.

"Apriremo il Parlamento come una scatoletta di tonno" gridavano i pentastellati solo qualche mese fa. Certo, ma considerati gli sviluppi successivi, lo volevano fare solo per espugnare quell’organo costituzionale titolare del potere legislativo e del rapporto di fiducia col Governo e assumerne, per così dire, in qualunque modo, il comando esclusivo.

Se dunque è vero che il fine giustifica i mezzi, i 5 Stelle sono divenuti la nuova casta istituzionale attraverso la lenta e costante opera di logoramento della casta già istituzionalizzata, rappresentata dai partiti tradizionali, che si pretende di mettere oggi fuori gioco mediante l’adozione di una legge del taglione che, per un crudele scherzo del destino, considerata la fase calante del Movimento, potrebbe riverberarsi addirittura contro i suoi stessi ideatori. Ma, lasciando da parte ogni amara considerazione sulla pessima qualità della gestione del potere, a chi giova davvero questa riforma? Cosa si vuole ottenere attraverso la riduzione del numero dei parlamentari? Davvero i vari problemi dell’Italia, specie quelli di carattere economico, sono determinati dall’esuberanza numerica della macchina governativa?

Le risposte potrebbero essere molteplici e tutte puntualmente motivate. Intanto, perché questa riforma, tanto acclamata e attesa da una certa parte dell’elettorato, altro non è che uno specchietto per le allodole, considerato che se il problema dichiarato è il costo effettivo ed eccessivo fino ad ora sostenuto per il mantenimento delle due Camere, lo stesso effetto del taglio sarebbe parimenti perseguibile attraverso la corrispondente riduzione dei compensi previsti per ciascun parlamentare in misura proporzionale, appunto, agli effetti di quello stesso taglio tanto infaustamente agognato.

Quindi, perché, qualora non si fosse capito, il c.d. "taglio delle poltrone", lungi dal porsi come vera riforma "populista", ossia a favore del popolo sovrano, oltre ad essere svincolata dall’imprescindibile nesso tra il principio di rappresentatività politica e il territorio, costituisce in realtà uno strumento di conservazione e di blindamento della casta propriamente detta, ridotta ai minimi termini ma per questo più "ricca, elitaria e privilegiata", dal momento che ridurre il numero dei parlamentari significa solamente e semplicemente allontanare i cittadini dai centri di potere e dalla gestione della politica riservata, a quel punto, a pochissimi eletti rappresentanti di lobby e di poteri forti in totale dispregio della ricerca del bene comune che dovrebbe invece animare l’attività di governo.

Infine, perché la motivazione reale a sostegno di questa riforma ingiusta e scellerata, che va ad amputare in radice il principio democratico di rappresentanza, sembra essere unicamente quella di soppiantare la democrazia rappresentativa con quel mostro, tanto virtuale quanto drammaticamente inconsistente, e per ciò stesso incontrollabile, rappresentato dalla piattaforma Rousseau. Per usare le parole di Emma Bonino al riguardo, "più che una strategia di sopravvivenza, quella della maggioranza giallorossa mi sembra un suicidio differito".

Il vero interrogativo resta, tuttavia, quello legato all’inspiegabile entusiasmo che questa ipotesi di "taglio" ha esercitato sul popolo. Perché è potuto accadere? È presto detto. Perché quel taglio di cui oggi tanto si discute affonda le sue radici in quel sentimento di disamore verso quel che la politica è divenuta (ossia un centro di impiego per molti), e che si è gradatamente radicato nell’animo della gente alimentando una sorta di bisogno di riscatto e di compensazione che, a sua volta, ha trovato il suo ristoro attraverso l’inflizione di una penitenza perpetrata mediante la revisione numerica del Parlamento.

Peccato solo che la capacità o incapacità dei nostri politici non sia questione di numero, ma di qualità personali. Forse, se non è chiedere troppo, più che a una riforma sui numeri occorrerebbe guardare ad una riforma fondata sulla prevalenza dei meriti. Chi lo sa! Ciò che appare certo è che il taglione cieco a cinque stelle si è scagliato sulla scatoletta di tonno. Vogliamo davvero cancellare per sempre il principio di rappresentanza democratica in nome di un irrisorio risparmio sui costi della politica parimenti perseguibile, semmai, attraverso la via meno "dolorosa", sul piano istituzionale, della riduzione dei compensi dei membri del Parlamento?

Giuseppina Di Salvatore

(avvocato - Nuoro)
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