Vasilij Grossman (1905-1964) prima ancora di essere uno scrittore era un giornalista. E non un giornalista qualunque perché aveva fatto il corrispondente dal fronte durante la Seconda guerra mondiale. Aveva raccontato e preso parte alla battaglia di Stalingrado in cui i sovietici avevano fermato per sempre l’avanzata nazista in Russia. Era stato poi uno dei primi corrispondenti di guerra a entrare, al seguito dell’Armata Rossa, nell’inferno di Treblinka. Insomma, Grossman si era trovato a vivere in una delle epoche più tragiche della nostra storia recente e aveva fatto la sua parte, fedele a un’ideale comunista che aveva incontrato e fatto proprio in gioventù.

Dentro di lui, però, nel corso degli anni era cresciuto un tarlo. Grossman credeva negli ideali, infatti, ma ancora di più credeva nella forza della verità, quella forza che lo portava a non chiudere gli occhi di fronte alla crudeltà dello stalinismo e alla violenza del regime totalitario che dominava oramai da decenni in Unione Sovietica. Non solo non voleva più chiudere gli occhi, ma decise che il male, sotto qualsiasi forma si presentasse e qualunque divisa – nazista, bolscevica o reazionaria che fosse –, andasse raccontato, andasse disvelato e denunciato. Fu così che a partire dai primi anni Cinquanta del Novecento si dedicò alla scrittura di quello che è considerato il suo capolavoro e una delle massime espressioni della letteratura del Novecento: Vita e destino, terminato nel 1960 ma dato alle stampe – e ora vedremo perché – solo nel 1980 in Svizzera, in un’edizione tra l’altro non integrale.

Questo imponente romanzo – oggi è disponibile nella magistrale versione in audiolibro interpretata da Tommaso Ragno (Emons, 2020, euro 18,90. Anche in versione scaricabile da Internet) – si presenta a prima vista come un grande affresco storico nella più pura tradizione della narrativa di Tolstoj. A fare da sfondo a Vita e destino vi sono, infatti, le vicende della battaglia di Stalingrado e la sfida all’ultimo sangue tra nazisti e sovietici. Grossman, però, non si limita a raccontare l’eroismo con cui i difensori russi si opposero al nemico, né la crudeltà degli invasori, come avrebbero voluto le autorità sovietiche negli anni successivi alla fine del conflitto. Avvia piuttosto una cruda e bruciante riflessione sulla realtà della guerra e sulla pervicace capacità del male di inquinare anche gli ideali più elevati. Si intrecciano allora nel romanzo le storie di eroi e traditori, automi di partito ed esseri pensanti, delatori, burocrati, intriganti, carnefici, martiri, personaggi fittizi e reali. Tutti funzionali al continuo interrogarsi di Grossman attorno a un tema fondamentale: come possono esistere e prosperare dei sistemi politici e di potere che arrivano a falsificare e distruggere la realtà – e quindi anche gli esseri umani – in nome di un ideale, anzi di un’Idea. Pagina dopo pagina, allora, il grande scrittore russo svela con cruda acutezza come tutta questa menzogna e cancellazione della verità avvengano mediante la mistificazione più abietta: quella di ammantarsi di bene, un bene astratto e universale nel nome del quale si arriva a compiere ogni atrocità e ogni bassezza. L’unica possibilità di resistenza deriva dalla bontà individuale, una bontà che è figlia dell’irripetibilità di ogni singolo destino umano. Come scrive Grossman: «Ciò che è vivo non ha copie... E dove la violenza cerca di cancellare varietà e differenze, la vita si spegne».

Naturalmente Vita e destino conteneva dentro di sé una denuncia non banale delle storture che sono insite in ogni ideologia totalitaria e quindi il manoscritto di Grossman attirò le attenzioni delle autorità sovietiche prima ancora di essere dato alle stampe. Il risultato fu che nel febbraio 1961 gli agenti del KGB requisirono il libro e tutto il materiale che lo riguardava, compresi gli appunti dello scrittore, le prime bozze e perfino i nastri della macchina per scrivere usata per la stesura del romanzo. Di Vita e destino non doveva rimanere più alcuna traccia e il suo autore trascorse gli ultimi anni della sua vita come un esiliato in patria, un paria tenuto lontano da tutti.

Fortunatamente due copie del manoscritto – affidate dall’autore ad amici – sopravvissero. La prima, incompleta, arrivò in Occidente in modo avventuroso, in forma di microfilm alla maniera di James Bond, e venne stampata come detto nel 1980. La seconda copia, versione integrale del capolavoro di Grossman, andò alle stampe solo nei primi anni Novanta del Novecento, quando oramai l’Urss era alla fine della sua vicenda storica. In ritardo, quindi, per mettere sotto accusa i gerarchi sovietici, ma non per donarci una semplice verità: quando l’idea vale più dell’uomo, allora quell’idea è semplicemente sbagliata.

La copertina
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