All'inizio è solo una sfida. Un amico della compagnia butta lì l'idea di prendere la bicicletta e andare a trovare sua nonna che vive in un paese di montagna. Allora si parte tutti assieme, un gruppo di ragazzi alle soglie dell'adolescenza. Si parte un po' per combattere la noia della provincia, un po' per non tirarsi indietro e non lasciare da soli gli altri, un po' perché si è in quell'età in cui tutto sa di avventura.

Pedalata dopo pedalata, chilometro dopo chilometro, il paese della nonna non arriva mai e gli intoppi non mancano, tanto da mettere a dura prova la resistenza dei ragazzi e la coesione della compagnia. Di fronte all'ultima salita i nostri arrivano stremati e decidono di tornare a casa prima di aver raggiunto la meta tanto agognata. Non si sentono vinti, anzi. Sanno di aver dato tutto. Si sentono fieri, uniti, adulti.

Tratto da una storia vera, "Un giorno da inventare" (Albe Edizioni, 2019, pp. 128) dello scrittore friulano Giorgio Felcaro è una storia sincera, carica di ricordi che da più di trentacinque anni erano sedimentati nell'animo dell'autore e che solo ora hanno deciso di prendere la forma di libro.

A confermarlo è proprio Giorgio Felcaro: "Scrivere non è il mio mestiere. L'artista di famiglia era mio fratello Massimo che ha realizzato il disegno del ciclista che si trova sulla copertina del libro. Io ho sempre fatto l'imprenditore, ma arrivato alla soglia dei cinquant'anni ho deciso di fare un corso di scrittura tenuto dalla poetessa e scrittrice friulana Lucia Gazzino. In molti mi dicevano che sapevo raccontare bene e allora ho provato a mettere su carta le mie storie. E tra le tante vi era questa vicenda di un viaggio fatto da ragazzo con alcuni amici. Una sera ho cominciato a buttare giù le prime righe e i ricordi sono riaffiorati nitidi, come se non fossero passati quarant'anni da quel giorno. Ho ritrovato dentro di me gli odori, i sapori, i profumi, le emozioni di quel giorno lontano".

La copertina del libro
La copertina del libro
La copertina del libro

Come nacque quel viaggio, un viaggio così importante da essere ancora vivo dopo tanto tempo?

"Fu una giornata particolare, tanto che quando ci incontriamo con alcuni di quelli che facevano parte del gruppo, il nostro discorso cade spesso su quell'avventura giovanile. Fu una sfida lanciata da uno di noi e a quel punto nessuno se la sentì di tirarsi indietro. Poi non avevamo molta chiarezza delle distanze da percorrere, non ci rendevamo conto di dover fare almeno cento chilometri ad andare e cento a tornare. A spingerci c’era il gusto di affrontare l'ignoto, ma anche la consapevolezza che dovevamo metterci alla prova, che dovevamo esserci. E aiutarci ad arrivare in fondo perché, nella compagnia, tra noi ci si aiutava. Nessuno veniva lasciato indietro".

I vostri genitori come hanno preso questa vostra scampagnata?

"Abbiamo chiesto il loro consenso, sapevano e ci lasciavano sperimentare. Funzionava così, in modo molto diverso da oggi probabilmente. Una cosa è sicura: senza il lasciapassare dei nostri genitori non ci saremmo mossi".

Alla fine, i ragazzi del libro mollano all'ultima curva come faceste voi nella realtà. Ma non fu una sconfitta, anzi una beffa?

"Dopo aver scritto il libro ho ripercorso la strada che facemmo tanti anni fa in bicicletta. Tornammo indietro che mancava meno di un chilometro al paese ma non vivemmo la rinuncia come una sconfitta. Avevamo dato tutto quello che avevamo dentro, avevamo dato il massimo. Non aveva più senso proseguire a quel punto".

Perché non aveva senso?

"Perché sapevamo cos'era un limite, avevamo la maturità di capire fino a dove si poteva arrivare e dove diventava solo incoscienza. Poco prima dell'ultima curva capimmo che era ora di tornare a casa".

E come fu quel ritorno a casa?

"Ricordo il cartello che indicava nove chilometri a Cormons, il nostro paese, e ricordo la tortura di quell'ultimo tratto. A quel punto, avevamo mollato e non vedevamo l'ora che finisse. Ma nello stesso tempo all'arrivo ci sentimmo uniti, felici, un po' più grandi di quando eravamo partiti da casa".
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