Il quinto appuntamento della serie di interviste "Diamo l'assalto al cielo": ricordi del Sessantotto in Sardegna, è con Salvatore Cubeddu, originario di Seneghe, Oristano, che ci racconta la stagione sessantottina vissuta lontano dalla Sardegna, da studente fuori sede a Verona e Trento e dalla particolare prospettiva del mondo cattolico. Oggi guarda a quell'esperienza in modo critico, pur avendo conservato la passione e l'impegno sociale di allora nella sua attività di direttore del centro studi della Cisl sarda e di segretario regionale della Federazione Lavoratori Metalmeccanici. Accanto all'impegno sindacale è stato docente e segretario del Psd'Az, nonché sindaco di Seneghe, editorialista de L'Unione Sarda e direttore di Fondazione Sardinia, per cui ha pubblicato vari saggi di storia e politica, tra cui L'ora dei Sardi del 1999.

Un sardo a Trento nell'anno della "rivoluzione" sessantottina, come ricorda quella stagione?

"Il mio è un percorso atipico, diverso da quanti fecero l'università a Cagliari, perché dal '66 al '73 sono stato lontano dalla Sardegna, per studiare prima teologia a Verona e poi sociologia a Trento, e poi perché avevo un pregresso specifico e venivo dal ramo del dissenso interno al mondo cattolico. La mia politicizzazione è avvenuta proprio allora, immerso nella realtà dell'Italia settentrionale, a contatto diretto col mondo operaio delle fabbriche venete e ancora di più quando passai all'Università di Trento, dove la gran parte degli studenti aveva una radice cattolica. La data fondamentale che fece cambiare il movimento studentesco fu l'agosto del '68, con i carri armati del Patto di Varsavia che invadevano la Cecoslovacchia: una brusca sterzata che provocò la spaccatura tra studenti e Partito Comunista italiano e cambiò il volto della contestazione".

E in Sardegna?

"Le dinamiche non sono state ovunque le stesse, in Sardegna l'elemento cattolico del dissenso è stato minoritario, e questo aveva a che fare con la presenza della Chiesa sull'Isola e con le tipicità della storia sarda. Se da Roma in giù i movimenti studenteschi passavano velocemente verso il Pci o verso 'il catechismo' marxista leninista, magari in chiave sovietica e cinese, in Sardegna nascevano i 'gruppettari' di Linea Rossa, Linea Nera e Servire il Popolo, quelli che poi da sindacalista mi sarei ritrovato nelle fabbriche metalmeccaniche come delegati".

Dalle aule universitarie alle lotte operaie, come nel resto del Paese?

"Nel '67 a Cagliari i movimenti studenteschi avevano come referenti i bisogni degli studenti e come cornice quella internazionale del Vietnam. L'onda è stata precoce anche sull'Isola, ma nel suo sviluppo non è riuscita ad affermarsi come altrove nella società reale, anche se qualche contatto ci fu, ad esempio tra l'Università di Sassari e la commissione interna di Porto Torres che diede il via ai primi dibattiti dei consigli di fabbrica, o a Cagliari tra studenti e operai della Rumianca".

E con le mobilitazioni in Barbagia, le rivolte di Orgosolo e Pratobello ci furono legami?

"Non direi, a mio modo di vedere uno dei problemi del movimento studentesco cagliaritano e sassarese era quello di avere una certa 'puzza sotto il naso' nei confronti delle problematiche sarde, e infatti agli studenti di allora si rinfaccia di aver fatto politica sulla base di ideologie lontane, senza vedere ciò che avevano in casa. Le lotte di Orgosolo hanno avuto soprattutto altri referenti, intellettuali di una generazione precedente a quella degli studenti, personaggi come Eliseo Spiga e Antonello Satta. Intanto nel mondo sardista si affermavano figure come quella di Antonio Simon Mossa, l'architetto cosmopolita che rifondò il sardismo in termini indipendentisti. Poi, dieci anni più tardi sarebbe arrivata anche la lotta operaia sarda, mentre proprio chi aveva guidato la contestazione negli atenei stava facendo altre carriere".

Una critica non nuova: prima contro il sistema, poi assimilati...

"Anche in questo caso la vedo dal punto di vista di un cattolico: le nobili idee devono diventare pratica di vita. La cultura di sinistra contiene meno questo approccio e il problema della coerenza e della tensione tra militanza politica e personale c'è stato senz'altro ed stato dirompente. Ma la contraddizione maggiore del '68 è che proprio la sua generazione simbolo sia stata 'tagliata' fuori dalle istituzioni politiche, la generazione più intelligente, brillante e numerosa dall'epoca dell'Unità d'Italia, per paradosso si è affermata in tutti gli ambiti, dal giornalismo alla scuola di massa, dal sindacato alla magistratura, tranne che in politica, l'ambito per cui si era preparata. E quando il sistema della Prima Repubblica è crollato ed è arrivato Berlusconi l'opposizione è arrivata proprio da questi settori della società, perché avevamo affidato in toto la lotta politica al Pci, quel partito che per molti sessantottini era l'avversario diretto".

L'altro nemico sono state le Brigate Rosse.

"Il nostro disastro e la nostra peggior colpa, perché non bastava che dicessimo 'né con lo Stato né con le Br'. Bisognava decidere con chi stare e proprio in quel momento ha pesato un deficit della nostra idea di democrazia. Non eravamo in sintonia col metodo democratico che fino ad allora era andato avanti nei Paesi occidentali, né con le trasformazioni democratiche delle sinistre europee".

Uno scontro generazionale?

"È il tema dell'emancipazione dalla società tradizionale, il passaggio dalla società patriarcale a quella di massa democratica, secolarizzata, pluralista. Dietro ognuna di queste parole ci sono stati processi che la mia generazione ha vissuto con entusiasmo".

Salvatore Cubeddu con un amico davanti alla Facoltà di sociologia a Trento
Salvatore Cubeddu con un amico davanti alla Facoltà di sociologia a Trento
Salvatore Cubeddu con un amico davanti alla Facoltà di sociologia a Trento

Uno degli slogan diceva "Vogliamo tutto": grande effetto, ma in concreto?

"Per noi giovani cattolici erano in gioco il valore della persona, un mondo più giusto e laico soprattutto la messa in discussione di un clero che non poteva più essere l'unico rappresentante della chiesa. Ma il paradosso è che proprio allora al governo del Paese c'erano i cattolici mentre i comunisti erano l'opposizione, ed ecco che tutta una generazione di cattolici 'contro' è passata a sinistra, prima attraverso i movimenti extraparlamentari e poi votando il Pci".

E in famiglia cosa vi dicevano?

"I miei erano allevatori di buoi, noi eravamo quattro figli, tre all'Università e uno al liceo, e loro vedevano questi figli bravissimi a scuola, rispettosi e disponibili a collaborare con loro nella campagna, spendersi per le grandi battaglie civili o per le piccole iniziative del nostro paesino. In assoluto non ci capivano, ma ci rispettavano e ci lasciavano fare, ad esempio quando, tornando a casa per le vacanze, ci mettevamo a diffondere il credo 'rivoluzionario' o semplicemente ci davamo da fare con le ragazze, allora cosa non semplice. E non trovavamo nemmeno grandi interlocutori con cui scontrarci, visto il vuoto creato dall'emigrazione e la perdita di credito della Chiesa, che allora si metteva a vietare la pillola e perdeva il contatto con la gente".

Perché intanto si faceva strada il femminismo.

"L'ho visto prendere forma tra le mie compagne di corso a Trento, le loro tesi sono state i primi testi sul tema, e l'Università è stato il luogo dei primi dibattiti su argomenti fino a poco prima tabù, come il sesso e il rapporto uomo donna. Ma c'è da dire che una delle prime ribellioni femministe è avvenuta proprio entro i movimenti, perché le stesse nostre compagne si ribellavano alla visione maschile della militanza che le relegava a ruoli secondari. Il femminismo nasceva sì da contatti culturali, ma anche dalla subordinazione della donna nella vita studentesca e privata, nei singoli rapporti coi propri partner. Una presa di coscienza che ha portato alla rottura di tante coppie, all'apparenza solide e felici".

E in Sardegna che terreno trovò il femminismo?

"Anche qui siamo in una dimensione particolare, siamo in una società storicamente matricentrica, dove il femminismo sarà perlopiù un fatto urbano, ancor più del movimento studentesco, e si diffonderà più per irradiazione che per vero e proprio proselitismo".

Cos'è rimasto dopo dei movimenti?

"Si può dire che i vent'anni tra la metà degli anni '50 e '70 nella storia dell'Isola equivalgono a 300. Le faccio un esempio molto concreto: nel '55 aiutavo mio padre nei campi con un aratro che era lo stesso dei tempi di Giulio Cesare, poi, nei cinque anni successivi, con l'arrivo del grano americano quel tipo di agricoltura millenaria sparisce di colpo. Alla rivoluzione delle strutture produttive si abbina quella sociale, con l'alfabetizzazione di massa e una modernizzazione generalizzata. E in più, mi permetta di dire che la nostra gente è molto intelligente, capisce velocemente le cose".

Nonostante revisionismi e critiche il bilancio del '68 è positivo?

"Potrei dire che è positivissimo, per quanto mi riguarda io sono ancora quello, ma non voglio passare gli ultimi anni della mia vita a difendere le scelte di quando ero giovane, per cui le dico che il vero problema è che quella generazione che ha vinto su tanti campi, è stata sconfitta politicamente".

E se invece avesse vinto?

"Le rispondo con le parole usate da Mauro Rostagno a Trento nel 1988, nella stessa aula magna delle riunioni studentesche di allora: 'Dopo 20 anni siamo qui a celebrare il ’68. Per fortuna non abbiamo vinto'. Nonostante questo, l'espulsione dei sessantottini dalla politica è una delle tragedie della democrazia italiana, perché ha espulso la meglio gioventù di allora".

Come racconterebbe il '68 a un ventenne di oggi?

"Come un nonno parlerebbe a un nipote, dicendogli che c'è stato un periodo in cui i giovani pensavano e speravano che il mondo si potesse cambiare, bastava volerlo e si sono messi insieme per farlo. E’ stata una bellissima avventura e resta tale, ma il mondo è più difficile da cambiare di quanto si pensasse allora, però è indispensabile provarci".

(La sesta intervista a Claudia Zuncheddu uscirà giovedì prossimo)

Barbara Miccolupi

(Unioneonline)

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