Il '68 di Loredana Rosenkranz: "Con la gente che lottava per una vita migliore ho riscoperto la mia terra"
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La protagonista odierna della serie di interviste "Diamo l'assalto al cielo": ricordi del Sessantotto in Sardegna è Loredana Rosenkranz, studentessa a Cagliari negli anni caldi della contestazione e in seguito attivista del movimento femminista isolano, che ripercorre per noi quella stagione con uno sguardo piuttosto critico, prendendone le distanze. Il tempo non ha invece alterato l'attivismo a favore delle donne, l'impegno politico e nel mondo della scuola, in qualità di docente e promotrice di iniziative formative in ambito psico-pedagogico e didattico, tra cui l'introduzione della lingua sarda nelle scuole isolane.
Cagliari, l'università e la voglia di cambiamento: come ricorda quel momento storico?
"La memoria del '68 nell'immaginario collettivo è quella di un cambiamento travolgente, uno spartiacque simbolico tra due fasi storiche diametralmente opposte, forse perché in quell'anno si concentrarono mutazioni epocali come l'accelerazione della guerra in Vietnam e trasformazioni politiche straordinarie, in un clima di perdurante Guerra Fredda, soprattutto in alcuni Paesi sovietici come Polonia, Jugoslavia, Cecoslovacchia. Basti pensare che proprio il 20 agosto, quando entrarono i carri armati a Praga, noi stavamo occupando il Rettorato a Sassari... E grazie alla rapida trasmissione delle informazioni tra studenti, università e piazze del mondo, si amplificava la sensazione di globalità delle proteste. A rifletterci ora non credo che quella voglia di cambiamento fosse tanto diversa dal ribellismo di altre generazioni, anche i giovani italiani di oggi non sembrano meno insoddisfatti e insofferenti, e in fondo votare una formazione che si proclama movimento antisistema non è meno di rottura dello slogan di allora 'la fantasia al potere'. Certo il contesto è diverso, i giovani di oggi fanno parte di un ceto medio impoverito, mentre al nostro tempo il ceto medio l'avevamo contro e ci vedeva come un'élite di figli di papà".
E i giovani di allora com'erano?
"Stavamo molto insieme, facevamo tutto insieme, sceglievamo quelli come noi, ed eravamo tanti. Questo contava per la costruzione di un'identità generazionale, ma certo non eravamo tutti uguali. Nel valutare oggi la grande fiducia che avevamo nella circolarità di certi valori generazionali mi rendo conto di quanto fossimo inconsapevoli dell'omologazione culturale che veniva da pratiche di massa come le assemblee, i seminari, i gruppi di studio di contro-cultura e i collettivi. Ma le barriere nazionali allora parevano inesistenti, saltavano l'alto e il basso e gli steccati delle élites, e sentirsi parte della massa era trovare una collocazione nel mondo".
Visto dall'interno com'era il movimento studentesco?
"Io osservavo con fastidio certi atteggiamenti stereotipati, condotte al traino che mi sembravano incoerenti, anche perché la presa di parola era in realtà solo per pochi e spesso a essere escluse erano le ragazze, sempre presenti ma di solito accanto a un compagno. Forse un collettivo di donne nell'Università avrebbe fatto la differenza ma era troppo presto per 'il personale è politico' del femminismo, o almeno troppo presto per me. Loro parlavano dei massimi sistemi, del marxismo, dell'imperialismo, della lotta di classe nel mondo e io ero sempre più disorientata e mi era difficile distinguere nella confusione ciò che mi interessava veramente".
È per questo che era scettica a parlarne?
"A rievocare quel disagio capisco perché ho sentito sgradevole in un primo momento la richiesta di questa intervista. Ci mancava l'autoironia, anzi era vietato dissociarsi e assumere un comportamento differente e questo limite non mi consentiva un pieno riconoscimento nel movimento, tanto che poi mi sono disinteressata al contesto universitario. Però devo dire che aver vissuto le due realtà di Cagliari, dove ero studentessa, e Sassari, sede della mia famiglia d'origine, mi consentì di liberare in parte quelle istanze, uscire dalla diatribe teoriche e partecipare in prima persona al gruppo di intervento che avviò la pratica sociale nel territorio, in particolare il polo industriale di Porto Torres".
A che punto era la Sardegna di fine anni '60?
"La Sardegna mi pareva tutta da cambiare: gli emigrati che ritornavano, i giovani figli dei contadini e pastori, i braccianti, gli operai edili rimasti disoccupati con l'esaurirsi del boom economico che cercavano un lavoro in fabbrica. Noi credevamo di poter fare molto per lo sviluppo dell'Isola, ma non avevamo fiducia nei partiti di governo regionali, che vedevamo alleati e asserviti al capitalismo ruggente e avventuriero dei Rovelli e dei Moratti. Né credevamo nei sindacati e nel Pci, che avevano visto con sospetto e poi respinto il potenziale di rivolta studentesca, e il fatto che avessero guidato la Resistenza non dava loro l'autorità di rappresentare i nuovi movimenti di massa. Pensavamo fosse necessario un modo diverso di vivere i valori costituzionali e che le lotte dovessero guidare e non essere guidate dalle formazioni della sinistra storica".
Dalla contestazione negli atenei alle mobilitazioni in Barbagia, le rivolte di Orgosolo e Pratobello: c'è un legame?
"I gruppi che agivano in Sardegna nelle fabbriche e nei circoli di paese erano senz'altro in contatto e quello più autorevole, per la grande mobilitazione che fu capace di guidare sostituendosi ai partiti del tutto inefficienti, fu il Circolo culturale di Orgosolo. Ricordo gli incontri in quei momenti caldissimi, tra fine '68 e '69: nel Circolo gli animatori erano studenti che parlavano con il nostro stesso linguaggio ma erano del posto e navigavano come pesci nel loro mare, perfettamente integrati alla popolazione, e accanto a loro c’erano anche diverse donne che partecipavano alle assemblee. Donne di tutte le età che parlavano! Mi colpì immediatamente. Com'è noto moltissime di loro parteciparono all'occupazione del terreno di Pratobello per impedirne l'occupazione da parte dei militari, un fatto già comune alle mobilitazioni contadine sulle terre, ma prendere la parola in una assemblea decisionale era ben altra cosa!".
Nella sua vita professionale e personale successiva cosa si è portata di quell'esperienza?
"Fu l'impegno politico insieme a tutta quella gente che lottava per una vita e una terra migliore a legarmi all'Isola in cui ero nata ma da cui sino ad allora mi ero sentita distante e a farmi decidere dopo la laurea di non lasciarla. Una scelta difficile per la ventata di restaurazione che cominciava a imporsi già negli anni '70 a discapito dei valori politici maturati con il Sessantotto, meno diffusi nella popolazione sarda rispetto alle aree metropolitane. E la mia scelta fu la ricerca di alleanze sociali per cambiare la Sardegna, con i giovani operai che erano la maggioranza, in fabbrica e nella scuola. Presi partito per una Sardegna mentre ero ben convinta della distanza dall'altra: da quella degli speculatori e deturpatori del territorio, e da quella dei politici che occupavano le istituzioni sempre più timorosa della partecipazione della gente e incapaci di recepirne le istanze".
Ripensando a quel periodo con il senso critico della maturità, quali sono gli aspetti nobili e i limiti?
"Di positivo c'è stata la forte coesione, direi anche per istinto di sopravvivenza, che consolidò un'identità di generazione che si proponeva come soggetto collettivo. In generale mi identificavo con il mondo intorno a me, i compagni del mio gruppo - certo non con i "figiciotti", membri della sezione giovanile del partito comunista, né tantomeno con i fascisti - e non mi pensavo come soggetto, perché l'esperienza che stavo compiendo era vedere il mondo intorno a me con gli occhi dei miei simili. Va detto che nel momento cruciale della rivolta avevo 18 anni e i legami con la famiglia si erano indeboliti, vivevo già lontana ma protetta da un gruppo di donne aperte e più anziane di me che mi facevano da sorelle maggiori, e una lo era realmente. In negativo, invece, perlomeno nel contesto italiano, direi che non abbiamo saputo costruire una nostra narrazione di quella esperienza mentre si svolgeva: pensavamo piuttosto a criticare le versioni dei giornalisti e tenerci lontani dalla stampa che consideravamo asservita al sistema. Così, non avendo archiviato una memoria dei fatti mentre si svolgevano, abbiamo lasciato spazio al nostro mito, 'di noi e su di noi'. Il resto l'hanno costruito la letteratura e i media, gridando al tradimento di ciò che non era stato realmente praticato, quando si sono considerati i percorsi degli esponenti più noti, quelli che poi magari sono finiti su sponde politiche opposte".
E le istanze femministe che si sarebbero sviluppate più tardi, che terreno trovavano nei movimenti studenteschi?
"La pretesa di normare la vita privata con le regole della politica da movimento di massa era particolarmente odiosa. Il femminismo, pur dovendo molto a quel movimento, la ribaltò, partendo dal privato e considerandone ogni sua manifestazione politica: con l'autocoscienza che si praticava in piccoli gruppi ogni singola donna imparava con le altre a trarre da sé, dalla propria vita, sia il problema che l'indicazione della risposta, come disse magistralmente Maria Luisa Boccia".
Le ragazze di oggi sono sensibili a questi temi?
"Le mie alunne mi hanno chiesto spesso di parlare del '68, molto più raro che volessero sapere del femminismo pur conoscendomi come attivista. Un fatto comune che viene interpretato come una disattenzione, quasi una presunta autosufficienza o reazione al percorso delle loro madri. Ma è smentito dal fatto che i movimenti delle donne continuano a rafforzarsi, sono diventati globali e ne fanno parte donne giovani, e pure alcuni uomini. C'è un'altra spiegazione a questa apparente indifferenza alla narrazione femminista, ed è la difficoltà di comunicare il femminismo attraverso il racconto, la sua pratica ha messo al centro il privato, il personale, la singola differenza, e solo se si capisce quest'ottica si può identificarne l’attualità".
Cosa resta oggi del '68?
"Oggi, molto più di ieri, suona a me inattuale l'immaginario sul '68 consegnato da molta letteratura politica e ricostruzione mediatica. Le connessioni e paradossalmente anche i ribaltamenti prodotti da quel tessuto culturale innovativo, emergono qua e là solo episodicamente nella discussione che si è aperta e resta problematica una conciliazione con quel passato, tanto più in un clima celebrativo che sembra volerne consegnare una memoria ufficiale".
(La quinta intervista a Salvatore Cubeddu uscirà giovedì prossimo)
Barbara Miccolupi
(Unioneonline)