Prosegue la serie di interviste "Diamo l'assalto al cielo": ricordi del Sessantotto in Sardegna, con il contributo del nuorese Pietro Clemente, classe 1942, tra i maggiori protagonisti del movimento a Cagliari e tra i primi teorici della nascita di una classe operaia isolana e poi attivo sul fronte più propriamente politico, come fondatore di Potere Operaio nel capoluogo. Non ha mai abbandonato la passione per l'antropologia, la disciplina che proprio allora fu al centro dei suoi studi universitari e che poi sarebbe diventata la materia d’insegnamento da docente.

Com'erano il mondo e la Sardegna di fine anni '60?

"Direi in movimento, un movimento che forse non veniva percepito e che oggi è difficile immaginare. Mentre la generazione di mio padre era molto legata a modelli che io non sentivo più moralmente validi, noi giovani cominciavamo a litigare sulla musica, sul jazz, sugli urlatori, su Celentano e poi su Picasso, Braque, l’astrattismo o semplicemente su come tagliarsi i capelli e come vestirsi. Io nel '68 avevo 25 anni, mi ero già sposato con rito civile ed ero via da casa da quando avevo 23 anni, ero quindi un po' più grande dei sessantottini che ne avevano 19 o 20. All'epoca avevo già visto alla lontana Kruscev, Papa Giovanni 23°, Martin Luther King e Kennedy e proprio allora dalle università americane arrivavano segni di fermento e di rivolta.

A Cagliari, poi, già nel '62 c'erano state manifestazioni per Cuba con tanto di caroselli della polizia e nel 1967 si intuiva che stava cambiando il vento. Allora ero militante del PSIUP e capii che dovevo lasciare la politica tradizionale per il movimento, una scelta che fu causa di conflitti, ad esempio con Emilio Lussu che non approvò, ma non potevo tornare indietro".

"Vento", "onda", persino "terremoto", sono i termini usati per descrivere un fenomeno che aveva come comun denominatore il fattore generazionale: da dove veniva la voglia di cambiamento?

"Tanti giovani si 'risvegliarono' dopo le prime prove, le occupazioni, le manifestazioni. Forse però era un movimento trasversale, generazionale e globale. Noi ne fummo una fattispecie. La generazione precedente veniva dalla parsimonia, dal potere dei padri, da un sistema di classi molto pesante, mentre noi volevamo essere tutti uguali. Il moto del mondo spingeva così, ma forse per noi uguali voleva dire tutti coi jeans, tutti con le Marlboro e le t-shirt, e il progresso che per noi era uguaglianza per la generazione dei nostri padri era una sorta di assalto ai consumi e anche agli status symbol".

E la Sardegna di allora come appariva a un ventenne?

"Tornavo da due anni a Milano che mi avevano aperto il mondo e mi avevano dato autonomia e fiducia, anche se come studente di architettura ero stato un disastro, tornavo con nostalgia e senso di voler essere utile lì dove erano le mie radici. La scelta di essere militante era compiuta. Conobbi da vicino la Sardegna povera come funzionario del PSIUP e vedere oggi Villaputzu o Ovodda, dove andavo per fare attività politica, ha dell'incredibile, paesi poverissimi e dignitosi che si sono trasformati in periferia urbana. Allora c'erano povertà, dolore, malattia e voglia di scappare, ben raccontate da Gavino Ledda in Padre padrone, e partiti come il PSIUP avevano una base di artigiani, minatori e contadini che rappresentavano la parte più dignitosa e consapevole di quel mondo marginale che desiderava una trasformazione profonda. I giovani dei paesi vedevano in me un riferimento, volevano andare in città e vivere una vita da giovani, quelli della piccola borghesia che venivano alla Facoltà di Lettere studiavano col mito dell'ascesa sociale e poi si trovavano a condividere qualcosa di più, un sogno di uguaglianza e di ribellione".

Pietro Clemente negli anni '70
Pietro Clemente negli anni '70
Pietro Clemente negli anni '70

Nel suo libro Triglie di scoglio. Tracce del Sessantotto cagliaritano rivede con la distanza del tempo e senso critico quella stagione: può descriverne aspetti nobili e limiti?

"Ho un ricordo solare e fresco di quella stagione, per me è stata bellissima, anche con gli errori fatti. Non mi è più capitato di vedere fenomeni collettivi simili di condivisione, di fratellanza, di reciprocità. Eravamo una comunità larga e forte, anche se internamente gracile dopo i giorni dell'entusiasmo. Poi, nel 1969, tutto cominciò a cambiare, e si colsero i limiti del Movimento, tanti giovani colti e critici - tra cui il sottoscritto - divennero maoisti ripetitori dei mantra del libretto rosso, forse perché si percepiva che i destini non si giocassero solo nel movimento e perché c'era il rischio di un colpo di stato di destra. Sono nati così i primi gruppi che tendevano alla clandestinità, e soprattutto i gruppi extraparlamentari dogmatici e chiusi che furono il contrario del '68. Insomma, da un movimento unitario vennero fuori tanti piccoli gruppi in conflitto".

Nel titolo del suo libro c'è un riferimento alla deriva violenta di una parte del '68, può spiegarlo ai lettori?

"Sì, è vero, qualcuno dei giovani di Potere Operaio nel 1969 si era inventato questa bella analogia tra noi e le triglie, diceva in sostanza che esistono le triglie di mare aperto e le triglie di scoglio, e che noi come 'rivoluzionari' eravamo del secondo tipo. Lo diceva forse perché eravamo un po' casinari, indisciplinati, fricchettoni, e non avevamo davvero l'aria di essere dei terribili rivoluzionari. Ecco perché nel libro invece ho rivendicato questo essere 'triglie di scoglio' come qualcosa che ci ha salvato da un approccio più radicale, che pure qualcuno sognava, quello della resistenza e della lotta armata. Come ho detto, c'era la convinzione di un imminente colpo di stato militare di destra e quando in Sardegna era venuto Giangiacomo Feltrinelli ci aveva invitati a passare a una fase più apertamente 'eversiva', una sorta di guerriglia urbana. Pur non avendo fiducia in quell'uomo che sembrava piuttosto stravagante, in Potere Operaio iniziammo a pensare con maggior attenzione all'eventualità dotandoci di bastoni e di caschi da manifestazione, per la verità mai usati, e ci fu pure qualche addestramento sull'uso delle bottiglie molotov. Ma finì presto, non era la nostra vocazione, eravamo troppo ironici, amavamo il lavoro di relazione e di contatti in fabbrica, le riunioni in sede, le letture e i dibattiti teorici, e per fortuna non eravamo 'triglie di mare aperto'".

Come reagirono le vostre famiglie?

"Nel nostro giro non c'era nessuno che avesse padri e madri favorevoli al movimento, per cui eravamo tutti impegnati anche in battaglie familiari. Io, sposato e con una casa mia accoglievo spesso profughi dalle famiglie, o amici che venivano 'a fare ora' e a confessarsi. In famiglia eravamo tutti maschi e tutti a sinistra, mentre mio padre era stato un fascista convinto, poi liberale e democristiano, insomma legato al potere e un po' cinico. Con lui eravamo sempre in guerra, che si trattasse di musica, taglio dei capelli, Kruscev o la Cecoslovacchia, perché voleva che avessimo successo diventando classe dirigente, mentre noi preferivamo essere come tutti. La sua ambizione alimentava il nostro rifiuto e la voglia di essere moralmente e civilmente uguali in un mondo senza classi. È stato difficile per lui e doloroso per noi. È morto molto presto e credo di portarmi dentro ancora delle cicatrici al riguardo".

E le istanze femministe che terreno trovavano nella Sardegna di fine anni ’60?

"La facoltà di Lettere tra '67 e '68 divenne una fucina di liberazione delle ragazze, nei limiti di quel tempo e molte di loro sarebbero poi diventate protagoniste e leader, altre sperimentavano linguaggi anche volgari e sessualizzati o provavano a vivere senza inibizioni. Nel suo insieme il movimento era ancora indietro su questi temi, ma fu anche un laboratorio della dignità e della parità di genere, si dormiva insieme nella Facoltà occupata, e magari dietro le spalle facevamo le solite battutacce maschili, ma avevamo rispetto e ammirazione per le nostre ragazze. Il femminismo vero, però, sarebbe arrivato solo diversi anni più tardi".

Dalla contestazione negli atenei alle mobilitazioni in Barbagia, le rivolte di Orgosolo e Pratobello: c'è un legame? Se sì, quale?

"Il movimento cagliaritano aveva le fabbriche nel cuore, e con esse le miniere e anche il mondo dei pastori. Nei contro-corsi della Facoltà occupata si parlava di Saras e Rumianca e quelle realtà le conoscevo bene per aver fatto lavoro 'ai cancelli', interviste agli operai e studi sul sistema industriale del petrolchimico. Tendenzialmente eravamo operaisti, ma nel '69 fummo anche con Orgosolo e il movimento dei pastori e tentammo di trasformare in lotta una grande manifestazione dei pastori che ci sembrava telecomandata dai sindacati pronti a compromessi al ribasso. Creammo improvvisando vari blocchi stradali, e sotto la sede della Regione incoraggiavamo i pastori a fischiare per non far parlare il Presidente. Ricordo che un dirigente sindacale importante e stimato come Giovanni Lai a un certo punto invitò i pastori a cacciare via noi studenti, facendo appello addirittura alla Brigata Sassari per mobilitarli contro di noi. Ne nacque una grande discussione e pure qualche rissa. Oggi che sono politicamente moderato non perdono questa modalità del PCI e della CGIL di allora di non appoggiarsi a noi come forze nuove e vivaci, sacrificando la società civile a quella politica e non accettando un pluralismo democratico dal basso. Peccato!".

Se oggi dovesse descrivere in pochi tratti cosa è stato il '68 a un ventenne...

"Nei miei molti anni di insegnamento universitario ho sempre sperato di ritrovare un Sessantotto. Ritrovare studenti protagonisti che imparassero in fretta attraverso un movimento unitario la vita e il mondo, come successe a noi. Male o bene, ma con l'idea di svolgere un ruolo. Avevamo facce da ragazzi ed eravamo sulla scena da protagonisti. E ho seguito con speranza il movimento del '90 (Movanta), che puntò sulla comunicazione, ma non ebbe energia e si spense. Ai giovani di oggi direi che essere protagonisti insieme è sempre una meravigliosa modalità di esplorare il mondo, e riprenderei quanto dissi aprendo una grande assemblea a fine 1967 in Facoltà a Cagliari, citando

Lettera a una professoressa: 'Sortirne da soli è l'avarizia, sortirne insieme è la politica'".

Nella sua vita professionale e personale successiva cosa si è portato di quell'esperienza?

"Sono cambiato molto sul piano ideologico, ho avuto forti rimorsi sui tanti errori di interpretazione e su tante cose sono arrivato perfino a dare ragione a mio padre. Il crollo del comunismo, poi, anche per militanti un po' libertari e antisovietici come eravamo noi, ha cambiato tutto il quadro. Oggi abbiamo di fronte uno scenario mondiale che annulla tutti i sogni della mia generazione. Il marxismo di quegli anni è stato per me una buona formazione intellettuale, ma se fossi rimasto marxista sarei stato un cattivo antropologo. Non ci sono teorie che resistano ai colpi di scena della storia. Da docente sono sempre stato dalla parte degli studenti e ho avuto varie liti con i miei colleghi spesso poco generosi e talora assenteisti. Tutto il lavoro sociale fatto in quegli anni, nelle fabbriche, nei contatti con operai o gente senza casa, l'esperienza delle assemblee, del parlare in pubblico me lo sono portato con me e mi è stato utile, anche se in modo diverso e in contesti cambiati. Gli devo molto anche se politicamente l'ho tradito e rinnegato, e ho rivissuto con dolore le ideologie che animavano allora le nostre azioni. Per paradosso avevamo storicamente torto, ma congiunturalmente ragione. E questo paradosso lo abbiamo vissuto poi come un dramma della coscienza".

Resta qualcosa nella società di oggi di quella stagione?

"Il mio principale stupore nel mondo di oggi è dato dal fatto che tutte le conquiste fatte negli anni '60 e '70 non hanno dato vita a ulteriori passi in avanti, e anzi hanno visto regressioni spaventose: giovani maschilisti, violenza sulle donne, insegnanti demotivati, senza profonde conoscenze delle cose che insegnano. Sono sconcertato. Oggi ci sono nuovi modi di essere in relazione, ma non vedo come si possa 'sortirne insieme', né rivedo più molto di quella stagione, salvo le grandi trasformazioni che produsse nella società di classe e patriarcale, di cui oramai qualcuno – non io - ha perfino nostalgia".

(La terza intervista a Lelio Lecis uscirà giovedì prossimo)

Barbara Miccolupi

(Unioneonline)

© Riproduzione riservata