Una mano che si chiude a pugno. Non per colpire, non per aggredire. Ma per chiedere aiuto contro i prepotenti. Si chiama “Signal for help” il codice gestuale ideato da un’associazione femminista canadese e proposto via Internet a chiunque subisce abusi o violenze domestiche ma non è in grado di denunciarli apertamente. Raccomandato dalla Banca Mondiale, apprezzato nel mondo anglosassone, accolto con diffidenza in Italia, il Signal for Help nasce nel 2020, durante il primo lockdown, quando è apparso subito chiaro che la convivenza forzata imposta dal Covid stava moltiplicando i casi di maltrattamenti in famiglia. E riducendo drasticamente le possibilità di fuga delle vittime.

La richiesta di soccorso

Il gesto è semplice: il palmo della mano aperta rivolta verso l’interlocutore, il pollice che si piega all’interno, le dita che gli si chiudono intorno. La Canadian Women’s Foundation, che lo ha inventato nell’aprile del 2020, ha realizzato una valigetta virtuale di video, foto, manchette liberamente scaricabili dal sito. L’idea è quella di venire incontro a chi non può telefonare ai servizi di emergenza né lanciare un SOS attraverso Whatsapp, perché ha sempre il fiato dell’aguzzino sul collo.

Carolina Melis (foto archivio L'Unione Sarda)
Carolina Melis (foto archivio L'Unione Sarda)
Carolina Melis (foto archivio L'Unione Sarda)

L'art director: un messaggio in codice

 “Penso che il simbolo e l’iniziativa siano potenzialmente molto utili”, scrive Carolina Melis, 45 anni illustratrice e art director cagliaritana di fama internazionale. Melis, che ha creato campagne di immagine per alcuni fra i più quotati brand del lusso, ha anche firmato l’animazione scelta dal Comune di New York  per la campagna “Stay Home” durante la prima fase dell’epidemia da Coronavirus.  Non è una che si tira indietro davanti alle battaglie civili. Il corto “Chi ama non taglia le ali” (una delicata animazione che trasforma lacrime, dolore e ira in una farfalla multicolore) commissionatole nel 2018 dalla rettrice dell’Università di Cagliari Maria Del Zompo è stato presentato e apprezzato  in molti festival del settore.

“Mentre mi occupavo della campagna antiviolenza promossa dall’ Università di Cagliari e dal Comitato unico di garanzia – racconta l’art director -  riflettevo proprio sul fatto che la maggior parte delle immagini esistenti facessero riferimento a casi di violenza compiuti e che mancasse un messaggio nuovo, di supporto a chi non vuole più subire”.

Carolina Melis parla da specialista di comunicazione visiva: “Ho trovato il gesto molto giusto per il contesto e la finalità: è sintetico, accessibile, universale. Uno strumento in più per comunicare una situazione di pericolo senza scrittura e senza parola. Un vero e proprio messaggio in codice”.

L’attenzione dei media

Ci ha creduto anche la Women's Funding Network, una rete statunitense che da 40 anni promuove e finanzia progetti economici, sociali e artistici con l’obiettivo di colmare le disuguaglianze di genere. Un vero e proprio colosso della filantropia, che ha attirato sulla campagna l’attenzione dei media: dal patinato Vogue USA al combattivo quotidiano britannico Guardian, passando per Elle e varie testate femminili. Ci ha creduto anche la Banca Mondiale, che l’ha rilanciata sul sito.

Nel Regno Unito la campagna è esplosa l’inverno scorso dopo lo stupro e l’omicidio di Sarah Everard, 31 anni, rapita nel parco londinese di Clapham Common. Delitto per cui è sotto accusa un poliziotto.

Il No delle Donne in Rete

In Italia il Segnale per chiedere aiuto invece non è andato lontano. Salutato con entusiasmo sui social, rilanciato dall’agenzia ANSA, è stato atterrato da un no che pesa: quello di Donne in rete (D.I.Re.) la prima rete dei centri  antiviolenza in Italia, un’organizzazione combattiva e capillare presente anche a Nuoro (Onda Rosa) e Olbia (Prospettiva Donna). «Attenzione –si legge in un post su facebook del 16 marzo - Non è così semplice come si crede. Il video presuppone che al segnale parta un protocollo di intervento che di fatto non esiste. Meglio, in caso di emergenza, continuare a far riferimento ai numeri utili 112 e 1522“. E poi la richiesta: non diffondete quel video, per favore.

I numeri dell'era Covid

Posizione all’apparenza contraddittoria, considerando che il lungo anno del Covid mostra un aumento significativo della violenza in famiglia. L’Istat ha analizzato le chiamate ricevute nel 2020 dal 1522, il numero gratuito di emergenza istituito dal Dipartimento per le Pari Opportunità.  Dati parziali (per un quadro più ampio bisognerebbe aggiungere quelli di Polizia e Carabinieri) eppure inquietanti

Nel 2020, ci racconta l’Istituto nazionale di statistica  le chiamate al 1522 sono aumentate del 79,5% rispetto al 2019, sia per telefono, sia via chat (+71%). Il boom, si legge in un comunicato stampa, “si è avuto a partire da fine marzo, con picchi ad aprile (+176,9% rispetto allo stesso mese del 2019) e a maggio (+182,2 rispetto a maggio 2019)”. Particolare agghiacciante: crescono le richieste di aiuto delle giovanissime fino a 24 anni di età (11,8% nel 2020 contro il 9,8% nel 2019) e delle donne con più di 55 anni (23,2% nel 2020; 18,9% nel 2019).

In questo quadro, non sorprende che si impennino le violenze subite da parte dei familiari (18,5% nel 2020 contro il 12,6% nel 2019) mentre restano stabili le violenze da parte dei partner attuali (57,1% nel 2020). Perché, quindi, rifiutare l’adesione alla campagna nazionale di Signal for help?

“Un gesto, e poi il vuoto”

“Non è in discussione il segnale in sé. Forse funziona in Paesi dove gli interventi da parte delle istituzioni sono più organizzati. Ma in Italia non è così. Se passa il messaggio che basta un gesto per ottenere aiuto, ebbene questo messaggio rischia di essere inutile o pericoloso”: Luisanna Porcu, 50 anni, psicologa e psicoterapeuta, parla a nome di Onda Rosa Nuoro.

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 Il soccorso in caso di maltrattamenti in famiglia deve essere molto accuratamente organizzato, spiega.  “Supponiamo che io sia per strada e tu mi faccia quel gesto. Supponiamo che io chiami la Polizia. Ma quando gli agenti arrivano, se arrivano, tu sei lì con il maltrattante. Che fai? Neghi, per paura delle conseguenze. Se invece denunci, scopri che non esiste un piano d’azione per metterti davvero al sicuro”. In pratica: non c’è un’accoglienza pre-organizzata per chi invoca aiuto, a parole, via chat o con un segno della mano.

Più prudente rivolgersi alle associazioni che gestiscono i centri antiviolenza, che hanno protocolli d’azione collaudati dall’esperienza. Con il loro aiuto, le donne si preparano per tempo, prima di uscire allo scoperto, denunciare o abbandonare il violento. Si muovono quando hanno un posto dove andare, quando sanno che i bambini saranno al sicuro. “Abbiamo fatto una campagna per suggerire alle donne come entrare in contatto con noi: quando gettano l’immondezza, quando fanno la spesa, quando lui dorme”, prosegue Porcu. I tempi della giustizia, poi, sono lunghissimi: un giudice ha tre giorni per sentire una persona che si è risolta a dire ai carabinieri: mio marito mi ammazza di botte. Nel frattempo, che succede?

Primo, i bisogni delle donne

“Noi lavoriamo sull’empowerment a partire dai bisogni delle donne, in una rete di donne”, afferma Porcu. “Le azioni dall’alto, quelle che non tengano conto dei bisogni delle persone, rischiano di ritorcersi contro di loro”. Per esempio? “Donna musulmana chiede aiuto e finisce dalle suore. Dopo una settimana è tornata dal maltrattante”.

L’associazione D.I.Re.  spiega Porcu, ha assistito nel 2020 circa 22 mila donne in tutta Italia. Ed è solo il 5 per cento del fenomeno. A Nuoro sono 342 gli sos raccolti lo scorso anno. Casi quasi sempre risolti. “Alcune entrano in casa rifugio, altre hanno risorse diverse”. La Regione finanzia  percorsi in case rifugio di 120 giorni eventualmente rinnovabili. Talvolta  i Comuni compartecipano al finanziamento aumentando così le risorse”, spiega la responsabile di Onda rosa. “Non quello di Nuoro, però. A Sassari, la casa rifugio è proprietà dell’amministrazione, quindi almeno non paga affitto e consumi”.

La Regione Sardegna

L’anno scorso la Regione Sardegna ha approvato le Linee guida per la gestione di quelle che chiama con un eufemismo “situazioni familiari problematiche derivanti anche dalla prolungata condivisione degli spazi in seguito all'emergenza Covid-19”. Nello stesso contesto, spiega l’ufficio stampa dell’assessorato alle Politiche sociali, “viene istituzionalizzata la prima Rete antiviolenza costituita da operatori pubblici, comprese le Procure, che hanno fattivamente collaborato alla redazione dell'atto, le aziende del servizio sanitario regionale e i servizi sociali dei Comuni. La Sardegna è anche la prima regione ad avere adottato interventi rivolti agli autori di violenza di genere e delle relazioni affettive”.

Insomma, è in corso un tentativo di creare una cornice istituzionale e di mettere a sistema l’aiuto alle persone (perlopiù donne e bambini, ma non solo) che subiscono maltrattamenti in famiglia e a quelle che glieli infliggono, magari a causa di problemi personali profondi e irrisolti.

Le leggi non bastano

Ma il pronto soccorso a chi grida aiuto resta affidato alle reti e alle associazioni di volontariato. E i buchi nelle maglie del sistema sono ancora grandi. Come dimostra il dramma che si è consumato di recente a Tortolì, dove Mirko Farci, 20 anni, è stato ucciso mentre tentava di difendere la madre Paola Piras, aggredita a coltellate dall’ex compagno  Shaid Masih che aveva denunciato per maltrattamenti e per stalking. A nulla sono serviti gli ordini di allontanamenti imposti dal Tribunale. Paola si è trovata sola, a pagare il prezzo di questa solitudine è stato il figlio.

Difficile non evocare le parole di Silvana Mari, scrittrice e giornalista femminista, che nel marzo scorso bocciava senza appello il Signal for Help: “Non abbiamo problemi a chiedere aiuto, ma a riceverlo”, scriveva il 17 marzo scorso sull’agenzia di stampa politica  Dire (www.dire.it).

Il fronte del Sì

Più possibilista Silvana Migoni, 65 anni, giornalista e imprenditrice del sociale, fondatrice e presidente di Donne al traguardo, associazione che, fra le molte attività, gestisce un Centro antiviolenza e una casa rifugio nel Cagliaritano. Qui “un’équipe di psicologi, assistenti sociali, educatori, mediatori culturali e volontarie coopera con le strutture sociali territoriali per dare risposta alle donne coinvolte in questo grave fenomeno sociale”, si legge nel sito web.

Silvana Migoni (foto archivio L'Unione Sarda)
Silvana Migoni (foto archivio L'Unione Sarda)
Silvana Migoni (foto archivio L'Unione Sarda)

“Il segnale proposto dalle donne canadesi è semplice ed efficace, noi lo abbiamo condiviso sui social, perché tutto può essere utile”, dice Migoni. “Non è diverso dal messaggio in codice (“Mascherina 19”) che si suggeriva di usare nelle farmacie. Non tutti possono fare una telefonata.”

Soluzioni creative

Flessibilità e spirito di iniziativa possono essere strumenti di liberazione, spiega Migoni. “Abbiamo a che fare con persone che sono, letteralmente, segregate. Pensiamo a chi convive con un marito ai domiciliari: è praticamente in galera”.

La responsabile di Donne al traguardo racconta la solidarietà attiva e le soluzioni creative che riescono ad aggirare i blocchi imposti dagli uomini maltrattanti. Così una ragazza africana, ridotta in schiavitù in un paese della Sardegna e che non parlava una parola di italiano, viene salvata grazie a un “palo” che segnala le assenze dell’aguzzino. La ragazza bielorussa costretta a prostituirsi è soccorsa da una rete femminile.  I casi sono infiniti, tutti simili e tutti diversi. L’obiettivo finale è restituire alle vittime dignità e capacità di camminare con le proprie gambe. In sicurezza.

“Certo, sarebbe più facile se ci fossero i protocolli. Ma non possiamo stare ad aspettarli”, dice Migoni. Ovviamente, si parla di interventi individuali, di casi singoli. Servirebbe un approccio più ampio. “Ma le iniziative risolutive richiedono un complesso di sinergie che al momento non c’è”. Nel frattempo quindi, ben venga anche il palmo della mano che si chiude a pugno intorno al pollice. “Va bene qualunque cosa possiamo inventarci per gettare un’ancora alle donne in difficoltà”.

Le responsabilità delle istituzioni

Susi Ronchi (foto archivio L'Unione Sarda)
Susi Ronchi (foto archivio L'Unione Sarda)
Susi Ronchi (foto archivio L'Unione Sarda)

“Credo che le donne che subiscono violenza  e abusi debbano avere a portata di mano molteplici possibilità per denunciare, perché è proprio la stessa situazione di vita controllata, vigilata, limitata a condizionare le loro reazioni verso  la salvezza”, dice Susi Ronchi, 65 anni, presidente del Corecom Sardegna, una lunga carriera da notista politica in Rai e fondatrice di GIULIA giornaliste. ”So che il segnale proposto dalle donne del Canada ha sostenitori/trici ma anche detrattori/ttrici. Ma rappresenta una scelta, in alcuni casi l’unica, per richiamare l’attenzione”. Certamente, sottolinea Ronchi, il gesto simbolico deve essere seguito  dall’attivazione “di tutte le procedure” per proteggere le vittime e non lasciarle sole. “Ma questa è la competenza delle istituzioni che non possiamo caricare sulle donne colpite da abusi e malversazioni. Non sono – conclude la giornalista - per la politica “benaltrista” di chi sostiene sempre che c’e’ benaltro da fare. Sostengo invece che anche questo semplice e veloce segnale, se raccolto, può salvare vite umane”.  

Non è un affare di famiglia

L’importante, alla fine, è parlarne. Diffondere la consapevolezza che la violenza non è inestirpabile. Che può nascondersi in tutte le case, ma è affare della società, non della famiglia. “Credo che questo simbolo, il gesto e l’iniziativa rappresentino una nuova visione di campagna antiviolenza” sintetizza l’art director Carolina Melis. “Il gesto non è rivolto solo alle vittime ed il problema non è solo una responsabilità dei centri antiviolenza. Riguarda tutti. Il gesto ci invita ad una responsabilità sociale, ci ricorda di essere attenti al prossimo e che anche noi possiamo rispondere ad una chiamata d’aiuto”.

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