"La pandemia ha giocato un ruolo fondamentale nella campagna elettorale di Joe Biden. Non c'è stato un solo intervento in cui non abbia criticato con parole forti la gestione di Trump, impegnandosi a cambiare completamente rotta. E uno dei primi atti da presidente eletto è stato l'annuncio di una task force interamente composta da esperti, medici e ricercatori. Un segnale forte con cui ha sottolineato la volontà di volersi affidare esclusivamente a donne e uomini di scienza. Inoltre, ha annunciato l'intenzione di rendere obbligatorie le mascherine a livello federale subito dopo il suo insediamento alla Casa Bianca il 20 gennaio".

Il Covid negli Stati Uniti, visto con gli occhi di una giornalista sarda che lavora da tempo a New York. Donatella Mulvoni, 38 anni, nata a Cagliari, cresciuta ad Assemini e originaria di Desulo, una laurea in Comunicazione alla Sapienza di Roma, dopo un anno a Berlino, si è trasferita nella Grande Mela nel 2008. E' giornalista professionista freelance, e collabora con numerose testate, da sette anni lavora in tandem con la collega Manuela Cavalieri.

Gli Usa sono uno dei paesi più colpiti dalla pandemia.

"Sì, e le cifre, in crescita sensibile ogni giorno, restituiscono un quadro molto preoccupante. Gli Stati Uniti si avvicinano a toccare il tetto dei 300mila morti. Secondo le stime del Centers for Disease Control and Prevention, l'autorità nazionale che monitora la pandemia, sono oltre 12 milioni gli americani ad aver contratto il virus, si tratta del numero più alto registrato al mondo da una nazione".

Che atmosfera si respira a New York?

"Quando è scattato il blocco dei voli tra Stati Uniti e Europa mi trovavo in Sardegna. Ero rientrata per una settimana ma, colta di sorpresa dalla chiusura, ci sono rimasta a lungo. Negli Usa sono rientrata da due mesi, grazie a un visto speciale, rilasciato ai giornalisti per seguire le elezioni. La prima impressione che ho avuto è che in Italia siamo più rigidi, guardinghi, forse impauriti dal virus. A guardare come vivono le persone qui, non si direbbe che gli Usa sono il paese più colpito dalla pandemia. Certo, New York oggi è irriconoscibile; è stata sfregiata dal virus, colpita nelle fondamenta; però le persone che vedo per strada, nei parchi o al supermercato, sembrano più a loro agio, rispetto a noi italiani, con l'idea di voler continuare a vivere una vita il più possibile normale. E' strano vederla comunque spenta, senza turisti e i rumori della fiumana di gente che eravamo abituati a vedere a Times Square. L'ho trovata trasandata, sporca, con numerose saracinesche abbassate. Come per tutti, sono cambiati i punti di riferimento, molti dei posti che frequentavo, ora sono chiusi. Ci sono tante case sfitte, e ho salutato vari amici che hanno deciso di trasferirsi: troppo cara New York, per quello che è capace di offrire in questo momento. Vivo in una zona di Manhattan frequentata da molti giovani. Ogni sera mi arrendevo al frastuono che arrivava dalla strada. Ora sentirla così silenziosa è triste".

Si sente più sicura in America o in Italia?

"Me lo sono chiesta. Non saprei, diciamo che sicuramente qui, forse anche complici le elezioni presidenziali, ci penso poco e ne parlo ancora meno con gli amici. Se in Sardegna sono rimasta quasi sempre a casa, anche per precauzione nei confronti dei miei genitori con i quali vivevo, in queste settimane sono uscita di più, ho visto più persone anche per lavoro. Nei giorni precedenti al voto mi sono ritrovata a dover intervistare tanti che la mascherina non la mettevano per scelta politica. Qui sicuramente mi sento più esposta".

Manhattan è in lockdown?

"No, e non lo è mai stata veramente neanche nel periodo più buio, almeno non come lo intendiamo noi in Italia. Bar e ristoranti chiudono alle dieci di sera, le luci di Broadway e dei suoi musical ancora rimangono spente. E chiuse sono anche le scuole pubbliche. Si ritorna per molti all'insegnamento virtuale. Però, si può passeggiare, andare in palestra, mangiare fuori, rilassarsi al parco, andare al museo o prendere appuntamento dal parrucchiere. Qui l'autocertificazione per uscire da casa non è mai esistita".

Il sistema sanitario regge?

"Nei mesi scorsi gli americani si sono commossi come noi davanti alle immagini di infermieri e medici stravolti dal dolore e dalla stanchezza. A New York, ogni giorno alle sette scattava l'applauso per i lavoratori delle categorie essenziali. Al momento ci sono quasi 80mila persone ricoverate. Il sistema sanitario nazionale, soprattutto in alcune zone del Paese, è costantemente in modalità di emergenza. In diversi stati a preoccupare è la limitazione di personale e mancanza di un sufficiente numero di posti letto".

C'è un diverso accesso alla diagnosi e alle cure tra ricchi e poveri e tra bianchi e neri?

"Questa pandemia negli Stati Uniti, come nel resto del mondo, ha sicuramente allargato il divario tra ricchi e poveri. I numeri parlano chiaro: le minoranze stanno pagando il prezzo più alto di questa piaga. Sono dati sconcertanti: gli afroamericani hanno il 37% in più di possibilità di morire per coronavirus rispetto ai bianchi. I nativi americani, inoltre, vengono ricoverati per complicazioni legate al Covid 5,3 volte di più, mentre afroamericani e latini 4,7 volte di più. Ho avuto modo di toccare con mano questo dislivello. Poco prima che scoppiasse la pandemia e venissero chiusi i confini, ho visitato la riserva Navajo, tra Arizona, Utah e New Mexico. La popolazione nativa è tra le più vulnerabili per una serie di ragioni, innanzitutto per la qualità del servizio sanitario, per l'accesso alle strutture mediche (limitate e carenti), per l'incidenza anomala di patologie importanti come il diabete. Ma non solo. In molte zone della riserva indiana, le abitazioni non hanno acqua corrente; per non parlare dell'impossibilità di rispettare il distanziamento, visto che nelle riserve spesso le famiglie sono nuclei plurifamiliari, ma anche multigenerazionali, conviventi sotto lo stesso tetto. Solo un esempio, che però racconta come questo virus e il modo di affrontarlo abbia costretto gli americani a fare nuovamente i conti con le tante contraddizioni di questa nazione".

Come sono state le elezioni?

"Intense! Ho seguito la campagna elettorale ovviamente anche quando mi trovavo in Sardegna, però è stato solo dopo aver mosso i primi passi qui a ottobre che sono stata travolta dalla straordinaria partecipazione delle persone. Si sono registrati numeri record per quanto riguarda l'affluenza. Oltre settanta milioni di voti per entrambi i candidati. Questa elezione ha restituito un'America divisa in due, proprio come era stata abbozzata durante le rispettive campagne dei partiti repubblicano e democratico. Posizioni diametralmente opposte sulla gestione della pandemia, sul concetto di assicurazione sanitaria, sull'economia, sul tema dell'immigrazione, sui valori sociali e religiosi. E' come se non parlassero neanche la stessa lingua. Il presidente eletto Biden ha detto di avere come obiettivo quello di ricucire le ferite della Nazione, di unirla, di curarla. Sarà sicuramente il suo compito più difficile in questi prossimi quattro anni". Rispetto al Covid quali sono state le posizioni?

"Agli estremi opposti. Biden e i democratici hanno fatto della pandemia uno dei loro argomenti principali in questa campagna; i repubblicani, con Trump, si sono invece impegnati a sminuire la tragicità dei numeri, in nome della invocata ripresa economica. Ho seguito un comizio di Trump e sono stata a Wilmington, in Delaware, quando Biden ha parlato alla Nazione, dopo le elezioni. Tra i seguaci del presidente uscente nessuno aveva la mascherina, è capitato anche che mi chiedessero di togliermela se avessi voluto intervistarli. Tra i democratici, non credo di aver contato più di tre sostenitori senza. Inoltre, mentre i rally repubblicani erano grandi comizi, con migliaia di persone, Biden ha scelto di non puntare alle misure, ma di organizzare dei drive in per fare in modo che i supporter fossero al sicuro e si riducesse il pericolo del contagio".

Biden ha subito affrontato la questione Covid.

"Sì, la pandemia ha giocato un ruolo fondamentale nella campagna elettorale del presidente eletto. Non c'è stato un solo intervento in cui Biden non abbia criticato con parole forti la gestione del presidente Trump, impegnandosi a cambiare completamente rotta una volta eletto. Ed effettivamente è stato così. Uno dei primi atti da presidente eletto è stato l'annuncio di una task force interamente composta da esperti, medici e ricercatori. Un segnale forte con cui ha sottolineato la volontà di volersi affidare esclusivamente a donne e uomini di scienza (all'opposto, il gruppo di lavoro di Trump era coordinato dal vicepresidente Pence). Biden ha dichiarato, ad esempio, l'intenzione di rendere obbligatorie le mascherine a livello federale, subito dopo il suo insediamento alla Casa Bianca, il 20 gennaio. Il fronte si allarga anche all'economia dove si attende un importante provvedimento - il secondo piano di stimolo, dopo quello messo in campo da Trump - che dia sollievo a tutte le categorie colpite dalla crisi. Il presidente eletto e il suo team di transizione stanno spingendo affinché riprendano immediatamente le trattative in Congresso su questo fronte".

Infine, fortunatamente sembra che Anthony Fauci resti.

"Il dottor Anthony Fauci è a capo del National Institute of Allergy and Infectious Diseases e ha lavorato con ben sei diversi presidenti, dunque si tratta di una figura specificamente scientifica e non legata alla politica. Di sicuro non abbandonerà la postazione e di certo Biden si avvarrà ancora di lui, della sua autorevolezza e della sua competenza. C'è da dire che ultimamente i rapporti con il presidente uscente Trump si erano notevolmente incrinati, alienandogli anche le simpatie della base repubblicana. Intanto però, a 79 anni, Fauci è diventato un vero e proprio eroe nazionale. Non c'è un solo americano che non lo conosca, che non sia in grado di riconoscere il suo volto, la sua voce pacata, i suoi modi rassicuranti".
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