The Cure, il ritorno inatteso della band
Il disco “Songs of a lost world” ha scalato le classifiche in mezzo mondo dopo 16 anni di silenzioPer restare aggiornato entra nel nostro canale Whatsapp
Sedici anni senza pubblicare un disco. Un’enormità, in un mondo dove la pubblicazione di nuova musica online è costante: magari, se non sei un nome già affermato, pubblichi “singoli” (come si faceva fino ai primi anni ’60) ma pubblichi. Anche perché con il ritmo raggiunto dalle “uscite” musicali sulle piattaforme (in un singolo giorno, ha fatto sapere la rivista SentireAscoltare, esce la stessa quantità di canzoni pubblicate nell’intero anno 1989) il rischio di finire fuori dalla zona di interesse del pubblico è altissimo.
Loro, invece, The Cure, gruppo inglese protagonista della scena post punk/new wave/dark fondato quarantacinque anni fa, dopo l’uscita nel 2008 di un album non apprezzatissimo né dalla critica né dal pubblico (4:13 Dream) si sono limitati a proseguire la loro infaticabile attività concertistica, fatta di esibizioni che per intensità e durata (solitamente intorno alle tre ore) non hanno nulla da invidiare a quelle del Boss, Bruce Springsteen. Di un nuovo album, il quattordicesimo nella carriera gloriosa della band guidata dal cantante, chitarrista e compositore Robert Smith, 65 anni, si è parlato più volte, ma non se n’era fatto nulla. Fino allo scorso autunno, quando il gruppo ha pubblicato prima due singoli e poi, insieme a un concerto tenuto in un piccolo teatro londinese, il Troxy, per un pubblico selezionatissimo (per poter avere un biglietto occorreva rispondere a un questionario online) e trasmesso in streaming, l’intero album: si intitola “Songs of a lost world”, sembra arrivare da un passato lontano ma – sorpresa – è finito ai primi posti delle classifiche inglesi, americane, italiane ed è elencato fra i dischi più importanti dell’anno di grazia 2024.
Perché sorpresa? Tanto per cominciare, non strizza l’occhio al suono oggi di moda ma resta fedele ai canoni estetici della band (in particolare a quella vena più cupa, oscura e cara ai fan puristi: siamo, per citare un album emblematico, dalle parti di “Disintegration”), poi perché non cede all’imperativo della fruibilità rapida e immediata che fa sì che le canzoni del nostro tempo dicano subito tutto ciò che hanno da dire: “Alone”, il primo singolo estratto dall’album, dura circa sei minuti di cui la metà sono occupati dalla lunghissima, estenuante ma – per gli amanti del genere – esaltante introduzione strumentale; mentre il pezzo finale, “Endsong” arriva alla durata di 10 minuti, decisamente scandalosa per gli standard attuali. Poi, i testi.
Non che le liriche dei The Cure abbiano mai aggirato i temi del malessere, dell’angoscia, del dolore, della claustrofobia, ma stavolta l’approccio è ancora più frontale, diretto, spietato: si parla dell’invecchiare, del fare i conti con i lutti, dell’inevitabilità della morte. Il corpo, con il suo deperire, gli affetti con la loro fragilità e la possibilità incombente di perderli, sembrano a fuoco e in primo piano come mai prima d’ora. Nella seconda canzone nell’album, “Nothing is forever”, chi dice “io” si rivolge all’amata con una richiesta che non è quella – scontata – di stare insieme “per sempre” ma di stare insieme “alla fine”: «Lo so, lo so / il mio mondo è invecchiato / ma tutto andrà bene / se tu mi dici che sarai con me alla fine». E quel mondo che invecchia è proprio il mondo di chi canta, che a 65 anni si trova “fuori posto”, fuori contesto. Ma, a sorpresa, i fan l’hanno capito e premiato: come se, quando nessuno se l’aspettava, la band fosse riuscita a toccare corde particolarmente sensibili nei fan di tutto il mondo, riuscendo a intercettare e dare voce allo spirito dei tempi.
Tanto che Smith, che firma testi e musiche di tutti i brani dell’album, ha ringraziato gli ascoltatori devoti: «È enormemente gratificante e sinceramente commovente ricevere una reazione così meravigliosa all’uscita del nuovo album dei Cure.