Daphna ci aveva messo il tempo di un abbraccio per innamorarsi perdutamente della sua bambina appena partorita. E a suo marito, Alexander, era bastato uno sguardo. Neppure nei loro incubi peggiori avrebbero potuto immaginare l’assurda realtà in cui sarebbero precipitati pochi mesi dopo: la piccola May non era loro figlia, e se ne sono dovuti separare.

Questa è una storia da film strappalacrime (magari qualcuno lo farà), ma è vera e ha cambiato il destino di due famiglie. L’ha raccontata di recente Susan Dominus sul New York Times, in un bellissimo long form avvincente come un romanzo, denso di emozioni ma anche di empatia e profondo rispetto per i protagonisti della vicenda. In effetti è la materializzazione del timore di molti genitori subito dopo il parto, forse di tutti: e se poi, al nido, scambiano mio figlio con un altro? Caso raro ma non impossibile, come ci ha spiegato la cronaca negli ultimi anni (e qualche film strappalacrime ce l’hanno fatto davvero). Ma se è capitato di confondere due bimbi appena nati, è assai più facile scambiare due provette: e quando l’errore accade in un centro per la fecondazione assistita, le conseguenze possono essere devastanti.

Fecondazione assistita

Daphna e Alexander Cardinale (lui è un cantautore di origine italiana, lei una psicologa di stirpe ebraica) avevano già un’altra figlia di cinque anni. Per darle un fratellino o una sorellina si sono rivolti a un centro per la fertilità nei dintorni di Los Angeles, vicino a casa. In Italia si chiamerebbe Fivet omologa (negli Usa la sigla è Ivf): fecondazione in vitro con embryo-transfer, in cui si utilizzano i gameti della coppia per ottenere (“in provetta”) un embrione da impiantare poi nell’utero della madre, per la gestazione. Il neonato avrà tutte le caratteristiche genetiche dei suoi genitori.

Il problema con la piccola May, venuta alla luce nel 2019, è che già dalle primissime settimane di vita non solo non somigliava a mamma e papà, ma sembrava chiaramente di sembianze asiatiche. Un test del Dna, due mesi dopo la nascita della bambina, confermò che nessuno dei due era il suo vero genitore. Il primo bivio drammatico, per la coppia, fu scegliere se avvertire il centro che aveva praticato l’Ivf: il legame creato con May era già fortissimo, e forse è balenata l’idea di far finta di niente. Ma ha prevalso la volontà di compiere un atto di verità nei confronti della bimba e dei suoi ignoti genitori biologici, anche se questo – era chiaro fin dall’inizio – avrebbe probabilmente voluto dire separarsi da quello scricciolo adorabile.

La realtà che è emersa dopo la segnalazione è, se possibile, ancora più romanzesca, per la quantità di coincidenze improbabili. Lo scambio al centro per la fertilità era avvenuto tra embrioni già fecondati e da impiantare: quindi anche i gameti di Daphna e Alexander avevano prodotto una nuova vita. Sempre una bambina: Zoe (nome di fantasia, come del resto May; i coniugi Cardinale invece hanno parlato al New York Times con le loro identità reali). Solo che Zoe era cresciuta nella pancia della madre biologica di May. In pratica, ciascuna coppia aveva allevato la figlia dell’altra. Curiosamente, vivevano a dieci minuti di distanza l’una dall’altra, avevano condizioni economiche e culturali piuttosto simili; anche nella famiglia “iniziale” di Zoe c’era già un figlio, un maschio di due anni. Cosa più importante, entrambe le coppie, pur nel grande turbamento e dolore che l’intero caso ha provocato, si sono dimostrate estremamente corrette e ragionevoli. Dopo un primo incontro, avvenuto quando le neonate avevano circa tre mesi di vita, hanno rapidamente deciso che la cosa giusta era restituire ciascuna ai suoi genitori biologici.

Il passaggio

Non è stato facile né veloce; è servita una fase di transizione, con incontri frequenti, prima dello scambio vero e proprio, e molto aiuto reciproco. Oltre alla collaborazione di medici, psicologi, avvocati. Ma quella riportata da Susan Dominus è tutto sommato una storia che è andata bene, anche se l’autrice non vuol parlare di lieto fine, perché metterebbe in ombra la grande sofferenza toccata a tutti i protagonisti. Le due famiglie hanno continuato a frequentarsi, la vicinanza delle rispettive case è stata in questo provvidenziale, specie durante il lockdown per il Covid; May e Zoe sono cresciute quasi come sorelle, andando anche alla stessa scuola materna. Hanno creato un rapporto felice con i loro genitori biologici, ma senza perdere il legame con le persone che le hanno allevate nei primissimi mesi di vita. Solo il tempo dirà quali tracce resteranno nelle loro personalità; ma certo, date le condizioni di partenza, poteva andare molto peggio.

ANSA
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Le culle di un reparto maternità in una foto d'archivio

Non è l’unico errore avvenuto in un centro per la fecondazione assistita; e può essere che qualche caso simile non venga mai scoperto. In Italia si era verificato un episodio molto controverso all’ospedale Pertini di Roma, nel 2013. È relativamente più frequente che lo scambio tra neonati avvenga nel reparto maternità, nonostante i protocolli e i sistemi per evitarlo, in particolare il braccialetto con le generalità che viene allacciato, subito dopo il parto, al polso del neonato e della madre. In Italia il caso più famoso è quello delle due bambine di Mazara del Vallo, Caterina Alagna e Melissa Foderà, nate nella notte di Capodanno del 1998 e – complice forse l’atmosfera festosa – scambiate in culla. L’equivoco, come si vede nel film del 2021 “Sorelle per sempre”, fu svelato solo tre anni dopo, quando una maestra consegnò una delle due bimbe, iscritte allo stesso asilo, alla madre dell’altra: in realtà era la sua vera madre biologica, e l’insegnante era stata tratta in inganno dalla notevole somiglianza. Da lì, la scoperta dell’errore e anche in quel caso lo scambio tra famiglie, ancor più doloroso data l’età delle piccole.

Le questioni etiche

Vicende simili pongono drammatici problemi etici e giuridici: sono in gioco le personalità di creature ancora in formazione, e i legittimi interessi dei genitori. Non è mai facile dire quale sia la scelta più giusta. Il diritto spesso non disciplina nel dettaglio queste eventualità; in generale, specie negli Usa, tende a privilegiare i legami di sangue, ma chiaramente non è un’opzione a costo zero. Significativa in questo senso, anche se la vicenda è del tutto diversa, la storica sentenza del 1988 della Corte Suprema del New Jersey sulla causa Stern-Whitehead, prima controversia in tema di maternità surrogata. In quel caso, la donna pagata per portare in grembo la figlia di un’altra coppia (ma l’ovocita era suo) aveva deciso, dopo il parto, di tenere la bimba; i giudici ritennero invalido il contratto, ma lasciarono comunque la piccola agli altri coniugi, perché ritennero che l’avrebbero allevata meglio. Una decisione in apparenza sospettosamente salomonica (e che comunque privilegia, di fatto, il potere della ricchezza), ma che tiene anche presente un dato: in simili vicende il neonato (o neonata) è il soggetto più debole di tutti, e quindi ogni scelta deve tenere conto anzitutto del suo miglior interesse.

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